Il Potere della Poesia: Dante nel Fuoco di d’Annunzio
Angelo Fàvaro
Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
Cosa possa fare la Poesia, quanto possa pesare sull’animo umano e in quale modo possa agire nelle nostre vite attiene all’inesprimibile: è lampante, soltanto, che chiunque si sia accostato con interesse e curiosità alle composizioni poetiche, anche quelle più note di poeti notissimi, non può non essere rimasto folgorato dall’illuminazione (per dirla con Rimbaud) e abbia iniziato un viaggio – che non potrà avere fine, quasi un trip allucinato – in questa arte, che è tutte le arti.
In un altro momento potremo discorrere, come siamo soliti fare, sui versi del terzo Vate, dopo Dante e Carducci, sulle sue composizioni poetiche più ardite e ammalianti, si pensi al Ditirambo d’Icaro o al Poema paradisiaco, o ancora alle Canzoni d’oltremare, ma adesso non è del d’Annunzio poeta, bensì degli effetti della poesia, interpretata da un’attrice, sull’eccezionale Stelio Effrena, che vorrei brevemente e per bagliori intermittenti soffermarmi con Voi, lettori culti e attenti.
Il fuoco è un romanzo, scritto nel corso di quattro lunghi e tormentati anni, e nuovamente ricorre all’esperienza autobiografica del poeta delle Pleiadi: sulla crisi d’amore fra Gabriele e la divina Eleonora Duse, sulle aspirazioni di un uomo incompreso e superlativo, sulle riflessioni teatrali e sulla bellezza di Venezia, sul fascino femminile e su molto altro ancora viene invitato il lettore a soffermarsi per oltre 500 pagine, quelle della preziosa edizione dell’amico Giuseppe Treves. Nelle lettere a Giuseppe è ben scandita la composizione del romanzo: «Caro Pepi, non ti allarmare! Il Fuoco sarà terminato fra alcune settimane. Se dovessi dirti tutte le ragioni del ritardo, mi converrebbe scrivere un volume: un romanzo su un romanzo», così il 20 ottobre 1898. E poi sempre all’amico munifico editore confessa che quella del romanzo è una «sciagurata avventura del Fuoco», perché è certamente «un’opera «che partorirà tante pene». E nonostante la Duse vi venga descritta come una donna ormai anziana, cadente, non più bella e fresca, tuttavia lei non ne scrisse né disse mai nulla. Né si lamentò con Gabriele. La divina rimane la divina. Di recentissima pubblicazione è il volume che ricostruisce perfettamente la vicenda: Più che l’amore. Eleonora Duse e Gabriele D’Annunzio, Annamaria Andreoli (Marsilio 2017). Come suo solito, il Vate non riesce proprio a non mescolare vita e scrittura e alla scrittura la vita: così ogni sua opera è sempre un’autobiografia letterariamente rivista e corretta. Venezia è probabilmente la vera protagonista del romanzo e non Perdita-Foscarina (la Duse) né Stelio Effrena (Gabriele), o la loro relazione tutta affidata a una bruciante passione. O forse lo sono le riflessioni teoriche sul teatro? Riflessioni di Gabriele-Stelio sollecitato da Eleonora-Perdita.
1894 Venezia e la Duse; 1895 la crociera in Grecia e gli scavi archeologici di Schliemann. Così nel romanzo troviamo fusi e confusi motivi splendidamente evocati e arroventati: L’epifania del fuoco e L’impero del silenzio sono i due libri nei quali si consuma la vicenda fra intellettuale e la tragica. Vagheggianti entrambi il teatro di Albano o di Apollo a Roma. Bayreuth e Wagner sono i prototipi. E la conclusione del romanzo, dopo amore e gelosia, è la morte dell’Arte con il feretro di Wagner che Stelio accompagna alla stazione di Venezia.
«La barca funebre attendeva dinanzi alla porta. Su la cassa fu distesa la coltre. I sei compagni attesero a capo scoperto che la famiglia discendesse. Discese, insieme stretta. La vedova passò velata; ma lo splendore della sua sembianza era nella memoria dei testimoni per sempre. Il corteo fu breve. La barca mortuaria andava innanzi; seguiva la vedova con i cari; poi seguiva il drappello giovenile. Il cielo era ingombro su la grande via d’acqua e di pietra. L’alto silenzio era degno di Colui che aveva trasformato in infinito canto per la religione degli uomini le forze dell’ Universo. Una torma di colombe, partendosi dai marmi degli Scalzi con un fremito balenante, volò sopra la bara a traverso il canale e inghirlandò la cupola verde di San Simeone.» Wagner era realmente morto a Venezia, non il 1900, ma il 13 febbraio 1883.
D’Annunzio aveva ipotizzato una triologia, al Fuoco avrebbero fatto seguito: La Vittoria dell’Uomo e Trionfo della Vita. Né l’uno né l’altro videro la luce.
Mentre compone le pagine conclusive del romanzo, d’Annunzio viene invitato a tenere una Lectura Dantis, a Firenze, nella nuova Sala dedicata al Poeta della Commedia, in Orsanmichele: accetta! E ovviamente coglie l’occasione nuovamente per mettere insieme vita e scrittura. Anzi scrittura e interpolazione della propria scrittura in altro contesto. Effettivamente, fra una folla inneggiante a Dante e a Gabriele, egli svolgerà la sua interpretazione dell’VIII Canto dell’Inferno.
Medesime pagine saranno usate per la Lectura e per il romanzo.
Ecco Stelio: la Commedia e Dante stesso con il carico dell’esilio danno il la ad un’orazione “pedagogica” alla donna e ai lettori: Perdita ha letto brani e come una novella Beatrice, con un tono severo e una precisa accentazione – elementi che conferiscono ai versi la nobiltà, quasi epica, di cui sono materiati – ha acceso in Stelio “una fiamma interiore” che lo trasfigura in una beatitudine divina e eterna:
Leggendo le cantiche di Dante, ella fu severa e nobile come le sibille che nelle volte della Sistina sostengono il peso dei sacri volumi con tutto l’eroismo dei loro corpi commossi dal soffio delle profezie. Le linee del suo atteggiamento e fin le minime pieghe della sua tunica, al pari delle modulazioni, dichiararono il testo divino. Spirata 1′ ultima sillaba, ella vide il suo amico levarsi con impeto, tremare come nella febbre, vagare per la stanza agitato dal dio, anelare nell’ansietà che gli davano i tumulti confusi della sua forza creatrice. Ella lo vide talora venire a lei con occhi raggianti, trasfigurato da una sùbita beatitudine, illuminato da una fiamma interiore, come se a un tratto si fosse accesa in lui una sovrumana speranza si fosse rivelata una verità immortale. Con un brivido che aboliva nel sangue il ricordo di ogni carezza, ella lo vide venire a lei e piegarlesi sopra le ginocchia abbattuto dallo scrollo terribile del mondo ch’egli portava in sé, dallo scotimento che accompagnava qualche metamorfosi celata. Ella soffrì e gioì, non sapendo s’egli soffrisse o gioisse; ebbe pietà paura e reverenza, sentendo quel corpo voluttuoso travagliato così profondamente dalla genesi dell’idea. Tacque; aspettò; adorò, in quel capo reclinato sopra le sue ginocchia, i pensieri ignoti.
Il potere della poesia dantesca, sembra voler spiegare Stelio, scaturisce in modo quasi divino dall’esecuzione dell’attrice: la poesia deve essere pronunciata, deve essere detta ad alta voce, deve essere espressa con la musica nostra naturalmente contenuta nel nostro corpo. I versi vivono nella voce e con la voce. La beatitudine scaturisce dai toni, dai suoni, dai ritmi e dagli accenti, che conferiscono non solo senso ma vero sinfonico rapimento. Successivamente egli enuncia il proprio ragionamento danteggiante:
Ma meglio comprese il grande affanno quando un giorno, dopo la lettura, egli le parlò dell’Esule. — Imaginate, Fosca, se potete, senza sbigottirvi, l’empito e l’ardore della smisurata anima nel mescolarsi alle energie elementari per concepire questi suoi mondi! Imaginate l’Alighieri, pieno già della sua visione, su le vie dell’ esilio, pellegrino implacabile, cacciato dalla sua passione e dalla sua miseria di terra in terra, di rifugio in rifugio, a traverso le campagne, a traverso le montagne, lungo i fiumi, lungo i mari, in ogni stagione, soffocato dalla dolcezza della primavera, percosso dall’asprezza dell’inverno, sempre vigile, attento, aperto gli occhi voraci, ansioso del travaglio interiore ond’era per formarsi l’opera gigantesca. Imaginate la plenitudine di quell’anima nel contrasto delle necessità comuni e delle infiammate apparizioni che gli si facevano incontro di repente allo svolto di un cammino, sopra un argine , nella cavità di una roccia, pel declivio di una collina, nel folto di una selva, in una prateria canora di allodole. Per i tramiti dei sensi la vita molteplice e multiforme gli si precipitava nello spirito trasfigurando in viventi imagini le idee astratte ond’esso era ingombro. Ovunque, sotto il passo doloroso, scaturivano sorgenti imprevedute di poesia. Le voci le parvenze e le essenze degli elementi entravano nell’occulto lavoro e lo aumentavano di suoni, di linee, di colori, di movimenti, di misteri innumerabili. Il Fuoco l’Aria l’Acqua e la Terra collaboravano al poema sacro, pervadevano la somma della dottrina, la riscaldavano, 1’attenuavano, la irrigavano,la coprivano di foglie e di fiori… Aprite questo libro cristiano e imaginate aperta a riscontro la statua di un dio greco. Non vedete erompere dall’uno e dall’ altra la nube o la luce, i baleni i venti del cielo?
Siamo alle ultime battute, alle pagine conclusive del romanzo. O forse ancora nella Sala di Dante in Orsanmichele?
Stelio-Gabriele ci invita a immaginare come Dante possa aver tratto i suoi versi e quell’immenso monumento dell’umanità che è la Divina Commedia. Le sorgenti della poesia sono imprevedibili, solo chi sa entrare in un rapporto di totalità con la Natura e con la Vita vi può attingere, per creare un’opera … per sempre.
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Il sito dedicato a Gabriele D’Annunzio
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