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Yves Bonnefoy poeta della prospettiva pericolosa

a cura di Angelo Favaro

Yves Bonnefoy poeta della prospettiva pericolosa[1]

Angelo Fàvaro
Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”

a Z.Z. e G. B.

 «La prospettiva è certamente pericolosa» scriveva Bonnefoy, «essa è capace di contribuire potentemente al pensiero di un “altrove” che non sarebbe altro che un’insidia» e proseguiva con la chiarezza che si addice al poeta e al filosofo: «E al viaggiatore che voglia sognare piuttosto che essere può dunque accadere che alcune immagini che essa ha impregnato delle sue forme, e delle sue formule, sembrino annunciare che questo altrove esiste, che non è neppure così lontano come si potrebbe credere, poiché quelle pitture mostrano misteriose figure con vestimenti di quaggiù», poiché «quegli uomini e quelle donne dipinti sono gli stessi che s’incontravano nell’Italia di quel tempo [il quattrocento e il cinquecento] ed è dunque possibile cercarne il luogo, per quanto trascendente sia stato rispetto alla semplice vita, nelle regioni di questa stessa terra italiana» (Y. Bonnefoy, L’entroterra, Donzelli, Roma, 2004, p. 11).

Pensava alle pagine di questo libro, quasi in modo ossessivo, e a queste parole, mentre dialogava, con me e con Deborah Ferrelli, nel pomeriggio di un freddissimo 20 gennaio del 2006, nel suo studio al Collége de France, ove ci aveva dato appuntamento.

Mentre le agenzie davano la notizia della sua morte, circa dieci anni dopo, il primo luglio di questo 2016, funesto, non riuscivo a pensare ad altro che alla sua voce che in un francese cantabile parlava del tempo, della vita, della poesia, ma soprattutto della prospettiva. E riflettevo sul fatto che non sarei stato capace, nello scorso luglio, di scrivere nemmeno una riga su di lui, sulla sua poesia, sulla vita e soprattutto sul pericolo della prospettiva che ci scaglia in un altrove al contempo possibile e “insidioso”. A 93 anni, certamente un’età nella quale si crede la morte sia ormai una liberazione, al contrario Yves lavorava alla prestigiosa edizione, nella Pléiade di Gallimard, della sua Opera Omnia. Qui, da noi, a cura di Fabio Scotto, anche suo traduttore, Yves – benché non avesse vinto il Nobel per la Letteratura, essendo stato per molti anni fra i favoriti, era tuttavia stato poeta d’Europa – aveva avuto la possibilità di vedere la sua Opera poetica pubblicata nella definitiva edizione dei Meridiani Mondadori (Y. Bonnefoy, L’opera poetica, Milano, Mondadori, 2010). Prezioso volume con commenti e autocommenti dell’autore, analisi dei testi poetici, ma quel che rende unico questo “libro” è la cronologia curata direttamente da Bonnefoy. La complessità della sua poesia e della sua scrittura letteraria sono perfettamente elucidate con un’attenzione specifica ai temi di una ricerca costante.

   Giunti dinanzi all’ascensore, io e Deborah, invitati dal poeta, lo troviamo lì ad attenderci, con la sua cortesia d’uomo d’altri tempi, semplice e quasi modesto, nei modi così come nell’abbigliamento, lì come fosse nella propria abitazione di famiglia. Affabilmente sorpreso dal fatto che non sia stato deluso l’invito e lusingato dalla nostra presenza, ci saluta con una vigorosa stretta di mano, e un sorriso dolcemente atteggiato a uno schietto e sorvegliato, al contempo, entusiasmo. Ci introduce nel suo studio. Ho la necessità, qui, oggi, di narrare questo incontro, rinnovato poi negli anni a Roma, a Siena, a Parigi, ma differentemente e senza la indispensabile serenità, perché il poeta era circondato-assediato da troppe persone ed era quasi infastidito dalla folla. Ci introduce nel suo studio di fronte al quale campeggia un ritratto fotografico di Paul Valéry. L’arredamento è curato, ma senza ostentazione: due grandi scrivanie, boiserie per contenere infiniti volumi, vari, dal pavimento salgono a tappezzare le pareti, la luce è soffusa, al centro della stanza è un tavolo tondo, tre poltroncine. Ci accomodiamo. Non è un’intervista, ma una conversazione, preferisce un rapporto epistolare o via email per trattare questioni tecniche o letterarie. Non ama rilasciare interviste. Si scrivono le domande e lui risponde egualmente in forma scritta. Desidera potersi concentrare, riflettere con calma, lungamente; l’intervista, ci spiega, deve essere stimolo alla ricerca, deve potersi permettere anche il ripensamento. Parliamo di poesia, di scrittura, di letteratura e, tema-problema che evidentemente occupa e interessa particolarmente Bonnefoy, di traduzione. Il poeta di Tours (qui nasce nel 1923) confessa che la poesia è fatica, riscrittura, pensiero, poi dice espressamente “lavoro”. Parla in francese, anche se comprende e conosce l’italiano. La poesia è fatica, lavoro, ripete e ci spiega che in particolare, oggi, è davvero difficile trovarne autentiche manifestazioni: è l’essenza – in questa confusione – stessa del “poetico” a sfuggirci. A suo avviso tutto dipende dal linguaggio: il poeta si accalora e si alza dalla sua poltroncina, va a prendere alcuni libri di poesia di autori vari, alcuni noti, altri ignoti, e poi prosegue affermando con sostenuta e appassionata, avvolgente consapevolezza di quel che vuole comunicare: bisogna soprattutto leggere poesia! È un grave danno, per tutti, continua Bonnefoy, che si scriva poca poesia, che se ne pubblichi ancor meno, e che la poesia non si traduca. La prassi della traduzione è per il poeta coessenziale a quella della scrittura. Non posso tacere, per offrire un esempio soltanto, che ne L’enseignement et l’exemple de Leopardi[2], una raccolta di tre testi differenti: 1. L’enseignement et l’exemple de Leopardi, 2. Pour introduire à Leopardi e 3. Leopardi parmi nous, Yves tenta di comprendere e interpretare un altro poeta, alla luce della propria poetica, e non in relazione alle indicazioni che Leopardi dissemina a profusione nelle numerosissime riflessioni sull’indefinito, sulla lontananza, sul senso-non senso, sulla natura e sulla lingua della/per la poesia. Ogni riflessione di Bonnefoy sulla poesia del recanatese scaturisce da una pratica di traduzione attenta e in fieri, non definitiva, dal momento che il poeta-accademico di Francia ha tentato la traduzione di cinque canti soltanto, e questo travaglio traduttivo lo induce a sostenere che: «Leopardi a été l’esprit lucide qui, un des premiers en Occident, a ouvert son esprit à cette évidence à travers les siècles obstinément repoussée: à savoir que l’être n’est pas, qu’il n’y a autour de nous et en nous, dans l’impermanence et l’illusoire, que des mouvements de simple matière. Mais cette pensée, à soi seule, n’aurait pas été la vérité la plus profonde […] Ce qu’il importe de comprendre c’est que si la chose humaine n’est que du néant, en effet, du point de vue de sa place dans la nature, la personne qui vit dans ce corps mortel est, elle, tout au contraire, elle est l’être même à chaque fois qu’elle décide de le vouloir, c’est-à dire si elle reconnaît à quelqu’un d’autre qu’elle, ou à quelque chose ou quelque principe, la valeur, à ses yeux, d’un absolu, ce que j’appelle de la présence. Car c’est alors s’inscrire dans le projet d’un lieu partagé, d’une terre»[3]. E prosegue il poeta francese dell’antinomia sostenendo che la poesia necessita di ricordar-si di ciò che ella è nell’assenza, e questa duplice richiesta del nulla e dell’essere nella dialettica paradossale costituisce il vero esserci della poesia e incita a vivere meglio: per un tale elemento cruciale Leopardi appare a Bonnefoy un poeta esemplare[4].

Una madre maestra, un padre operaio, un figlio matematico, e lui filosofo e poeta, traduttore di W. B. Yeats, John Keats, Giacomo Leopardi e Francesco Petrarca, e professore.

Osserviamo, io e Deborah, tutto intorno e in particolare il modo di parlare e di muoversi, in quel suo spazio consueto, mentre giunge la sera. Ci sorprende quando con fierezza e sicurezza sostiene che la poesia è una realtà che non può accadere due volte, nello stesso modo, e questo peculiare modo d’essere lo definisce présence della poesia. E ribadisce «Faire advenir la présence ». Abbiamo bisogno di silenzio, tuttavia, per poter comprendere la nobile grandezza del linguaggio, insiste, e poi ci dice che la sua prima volta in Italia, se non ricorda male, è stata nel 1953. Vuole sapere tutto di noi, soprattutto la nostra provenienza e quel che facciamo. È curioso come tutti gli uomini di intelligenza e sensibilità non comuni.

Trovo in una riflessione di Antonio Prete, leopardista e traduttologo di vaglia conosciuto e incontrato in numerose occasioni a Recanati, alcune indicazioni che mi ricordano quel pomeriggio che si scioglie nella sera e una conversazione che avrei voluto non finisse mai: «La  poesia di Bonnefoy è un pensiero che mentre evoca presenze interroga i confini stessi del pensiero. Mentre ospita un albero, una pietra, uno spicchio di cielo, un colore scrostato di pittura, si spinge sulla soglia dell’invisibile, leggendo le sue ombre. Mentre ascolta un passo nella sera, un rumore di vento o d’acqua, mentre accoglie figure provenienti da un sogno, cerca un radicamento nel qui, nella opacità della terra. E allo stesso tempo libera l’ala dell’altrove, il pensiero dell’impossibile. E tutto questo accade nel ritmo aperto, da adagio meraviglioso, del verso. O nel ritmo di una prosa che ha portato la tradizione francese dell’essai, del saggio, verso forme nuove. Verso forme in cui la descrizione di un’opera d’arte è racconto, il ricordo è meditazione, l’analisi è evocazione di figure e di luoghi, insomma la scrittura è esercizio di una libertà inventiva estrema, ma anche discreta, quasi confidenziale: esperienza che mette in campo un sapere conoscendo la fragilità del sapere, la sua debolezza dinanzi alla presenza insondabile del vivente.» e aggiunge ancora qualcosa che ci riporta alla poesia di Bonnefoy: «Da Anti-Platon del ’47 a Les planches courbes del 2001, da Hier régnant désert del ’58 a Ce qui fut sans lumière dell’85, da Du mouvement et de l’immobilité de Douve del ’53 a L’Origine du langage del 1980, da Pierre écrite del ’65 a Dans le leurre du seuil del ’75. Stazioni che si rispondono. Dialogano tra di loro. E ogni stazione poetica ha, di volta in volta, intorno ad essa, un orizzonte, o forse un giardino di pensieri che la circonda, e anche illumina. È la scrittura in prosa: saggio, poème-en-prose, frammento, racconto (racconto in sogno). Così da L’improbable a Rimbaud, da Un rêve fait à Mantoue a Rue traversière, da Remarques sur la couleur a La vie errante senza dire dei tanti Entretiens sulla poesia.» (Antonio Prete, La poesia dell’immagine, ne I quaderni del Gallo Silvestre, Manni 2006)

Bonnefoy parla con me e con Deborah dei suoi poeti: Omero e Esiodo, Kavafis e  Seferis, Virgilio e Dante, Baudelaire, Shakespeare, Mallarmé, Racine, Keats e poi il suo amico venuto a mancare solo l’anno precedente, Czesław Miłosz: poeta tragico, ironico e pessimista. Ci parla del più grande poeta in lingua tedesca, a suo avviso, narra di Paul Celan, che ha conosciuto quando usava ancora il suo cognome Antschel: scampato al campo di concentramento ha sempre poi vissuto in Francia e oggi dovrebbe essere letto e meditato, proprio per il suo dire poetico e in poesia, e perché capace di lasciar parlare il silenzio. È poesia evocativa la sua. Commosso quasi fosse un evento recente, ci ricorda che è morto suicida, nel 1970.  Prende un libro e legge in un tedesco quasi francesizzato:

Schwarze Milch der Frühe wir trinken sie abends
wir trinken sie mittags und morgens wir trinken sie nachts
wir trinken und trinken
wir schaufeln ein Grab in den Lüften da liegt man nicht eng
Ein Mann wohnt im Haus der spielt mit den Schlangen der schreibt
der schreibt wenn es dunkelt nach Deutschland dein goldenes Haar
Margarete
er schreibt es und tritt vor das Haus und es blitzen die Sterne
er pfeift seine Rüden herbei
er pfeift seine Juden hervor läßt schaufeln ein Grab in der Erde
er befiehlt uns spielt auf nun zum Tanz

Schwarze Milch der Frühe wir trinken dich nachts
wir trinken dich morgens und mittags wir trinken dich abends
wir trinken und trinken
Ein Mann wohnt im Haus der spielt mit den Schlangen der schreibt
der schreibt wenn es dunkelt nach Deutschland dein goldenes Haar
Margarete
Dein aschenes Haar Sulamith wir schaufeln ein Grab in den Lüften
da liegt man nicht eng

Er ruft stecht tiefer ins Erdreich ihr einen ihr andern singet und spielt
er greift nach dem Eisen im Gurt er schwingts seine Augen sind blau
stecht tiefer die Spaten ihr einen ihr andern spielt weiter zum Tanz auf

Schwarze Milch der Frühe wir trinken dich nachts
wir trinken dich mittags und morgens wir trinken dich abends
wir trinken und trinken
ein Mann wohnt im Haus dein goldenes Haar Margarete
dein aschenes Haar Sulamith er spielt mit den Schlangen

Er ruft spielt süßer den Tod der Tod ist ein Meister aus Deutschland
er ruft streicht dunkler die Geigen dann steigt ihr als Rauch in die Luft
dann habt ihr ein Grab in den Wolken da liegt man nicht eng

Schwarze Milch der Frühe wir trinken dich nachts
wir trinken dich mittags der Tod ist ein Meister aus Deutschland
wir trinken dich abends und morgens wir trinken und trinken
der Tod ist ein Meister aus Deutschland sein Auge ist blau
er trifft dich mit bleierner Kugel er trifft dich genau
ein Mann wohnt im Haus dein goldenes Haar Margarete
er hetzt seine Rüden auf uns er schenkt uns ein Grab in der Luft
er spielt mit den Schlangen und träumet der Tod ist ein Meister
aus Deutschland
dein goldenes Haar Margarete
dein aschenes Haar Sulamith

E poi asserisce con sicurezza che tutta la poesia è intraducibile! La traduzione ci pone di fronte alla relatività delle lingue e dunque delle culture, procede, ognuna ha concetti propri espressi in modo proprio e peculiare, la traduzione è solo il modo per divenire pienamente consapevoli di questa relatività. È solo il modo nel quale nella lingua originaria e originale, in cui si esprime il poeta, si può tentare di cogliere il messaggio poetico, che riguarda sempre il rapporto fra l’essere e il mondo. Sarebbe necessario giungere per approssimazioni a quella che Bonnefoy nel corso della nostra conversazione definisce la traduction véritable, che rimane, tuttavia, un’illusione! Perché c’è una contraddizione interna: come è possibile rendere véritable, ovvero unica, la resa di un testo poetico-in poesia che è invece per propria natura ambiguo? Questa la sconfitta del traduttore rispetto alla poesia, assicura Bonnefoy. Lui stesso è un traduttore, ci conferma, e insieme alle traduzioni ha anche riflettuto sulla traduttologia. Oltre quel che lo sguardo coglie. Oltre il tempo. Così si afferrano le voci, svaporano le apparenze, rimane la pietra a sfidare l’insidia della soglia.

Osservare, ascoltare, spiccare negli interstizi della realtà l’immagine che lascia il segno, questa è anche la pratica alla quale si deve applicare il traduttore, ci garantisce che desidera incontrare, conoscere, parlare a lungo con i suoi traduttori, cita più volte Fabio Scotto e Gabriella Caramore, ma ce ne sono altri, per lui è significativamente necessario e indubitabile, etico che dalla conversazione con i traduttori nasca quella complicità che è tutta volta a non tradire la poesia, il testo poetico/in poesia. Il poeta è stanco, il tempo è schizzato via.

Chiediamo timidamente di leggerci alcune fra le sue poesie, quelle che ama maggiormente, sarebbe per noi un dono. Con una voce che non tradisce età, e le contiene tutte le età della poesia, legge:

Heurte,
Heurte à jamais.
Dans le leurre du seuil.
A la porte, scellée.
A la phrase, vide.
Dans le fer, n’éveillant
Que ces mots, le fer.
Dans le langage, noir.
Dans celui qui est là
Immobile, à veiller
A sa table, chargée
De signes, de lueurs.
Et qui est appelé
Trois fois, mais ne se lève.

E poi :

Regarde ce torrent,
Il se jette en criant dans l’été désert
Et pourtant, immobile.
C’est l’attelage cabré
Et la lace aveugle.
Écoute.
L’écho n’est pas autour du bruit mais dans le bruit
Comme son gouffre.
Les (alaises du bruit,
Les entonnoirs où se brisent ses eaux,
La saxifrage
S’arrachent de tes yeux avec un cri
D’aigle, final.
Où heurte le poitrail de la voix de l’eau,
Tu ne peux l’entendre.
Mais laisse-toi porter, œil ébloui,
Par l’aile rauque.
Nous
Au fusant du bruit,
Nous
Portés.
Nous, oui. quand le torrent
A mains brisées
Jette, roule, reprend
L’absolu des pierres.

Procede ancora con qualche testo … prima che sia lui a congedarci, ci alziamo e ci avviamo verso la porta. Ci segue. Ci accompagna fino all’ascensore. Ci abbraccia calorosamente e ci saluta.

«Ma attenzione! È esattamente il pericolo relativo all’uso dello strumento prospettico che può farne un’occasione di maturazione, una via d’accesso a quello sguardo sul mondo e la vita che hanno avuto […] pochi architetti o pittori [dell’Umanesimo e del Rinascimento» (Y. Bonnefoy, L’entroterra, Donzelli, Roma, 2004, p. 11).

Yves Bonnefoy ha più volte ribadito che la poesia per lui sarebbe stata una forma di restituzione alle cose e agli uomini, in quanto esseri umani, della pienezza della presenza, per operare in tale direzione egualmente sarebbe stato necessario un linguaggio scarno e assoluto. Una Pierre écrite.

Ci sono molti modi attraverso i quali un poeta, uno scrittore, un artista può distruggere la propria opera, realmente o metaforicamente, inequivocabilmente tuttavia il modo più serio è portandola a termine. Compiendola. L’Opera poetica di Yves Bonnefoy rimane incompiuta nell’edizione Gallimard, agli studiosi e ai lettori il compito arduo e avventuroso di continuare a leggerla, a interpretarla, a ordinarla, in tal modo l’autore – felicemente – si è sottratto dal darle il colpo di grazia.
Un addio al poeta, un addio dal poeta.

L’adieu

Nous sommes revenus à notre origine.
Ce fut le lieu de l’évidence, mais déchirée.
Les fenêtres mêlaient trop de lumières,
Les escaliers gravissaient trop d’étoiles
Qui sont des arches qui s’effondrent, des gravats,
Le feu semblait brûler dans un autre monde.

Et maintenant des oiseaux volent de chambre en chambre,
Les volets sont tombés, le lit est couvert de pierres,
L’âtre plein de débris du ciel qui vont s’éteindre.
Là nous parlions, le soir, presque à voix basse
A cause des rumeurs des voûtes, là pourtant
Nous formions nos projets : mais une barque,
Chargée de pierres rouges, s’éloignait
Irrésistiblement d’une rive, et l’oubli
Posait déjà sa cendre sur les rêves
Que nous recommencions sans fin, peuplant d’images
Le feu qui a brûlé jusqu’au dernier jour.

Est-il vrai, mon amie,
Qu’il n’y a qu’un seul mot pour désigner
Dans la langue qu’on nomme la poésie
Le soleil du matin et celui du soir,
Un seul le cri de joie et le cri d’angoisse,
Un seul l’amont désert et les coups de haches,
Un seul le lit défait et le ciel d’orage,
Un seul l’enfant qui naît et le dieu mort?

Oui, je le crois, je veux le croire, mais quelles sont
Ces ombres qui emportent le miroir?
Et vois, la ronce prend parmi les pierres
Sur la voie d’herbe encore mal frayée
Où se portaient nos pas vers les jeunes arbres.
Il me semble aujourd’hui, ici, que la parole
Est cette auge à demi brisée, dont se répand
A chaque aube de pluie l’eau inutile.

L’herbe et dans l’herbe l’eau qui brille, comme un fleuve.
Tout est toujours à remailler du monde.
Le paradis est épars, je le sais,
C’est la tâche terrestre d’en reconnaître
Les fleurs disséminées dans l’herbe pauvre,
Mais l’ange a disparu, une lumière
Qui ne fut plus soudain que soleil couchant.

Et comme Adam et Ève nous marcherons
Une dernière fois dans le jardin.
Comme Adam le premier regret, comme Ève le premier
Courage nous voudrons et ne voudrons pas
Franchir la porte basse qui s’entrouvre
Là-bas, à l’autre bout des longes, colorée
Comme auguralement d’un dernier rayon.
L’avenir se prend-il dans l’origine
Comme le ciel consent à un miroir courbe,
Pourrons-nous recueillir de cette lumière
Qui a été le miracle d’ici
La semence dans nos mains sombres, pour d’autres flaques
Au secret d’autres champs « barrées de pierres » ?

Certes, le lieu pour vaincre, pour nous vaincre, c’est ici
Dont nous partons, ce soir. Ici sans fin
Comme cette eau qui s’échappe de l’auge.

Yves Bonnefoy, Ce qui fut sans lumière (Mercure de France, 1987)

Angelo Fàvaro
Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”

[1] Si riprende, ma solo parzialmente,  un articolo già edito, cfr. Angelo Favaro, Appuntamento col poeta. Un pomeriggio con Bonnefoy al Collége de France, in «Tempo presente», n.301-304, Gennaio-Aprile 2006, pp. 34-37.

[2] Y. Bonnefoy, L’enseignement et l’exemple de Leopardi, William Blake and co., Bordeaux 2001.

[3] Ibidem, p. 26.

[4] Ibidem, p. 28.

 

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Nota della redazione di i-libri.com

Il prof. Angelo Fàvaro (nella foto) si occupa di letterature classiche, di ibridazioni fra le arti e la letteratura, di teatro, e collabora con il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Roma “Tor Vergata” e con l’Associazione Fondo Alberto Moravia, di cui è Presidente Dacia Maraini. Collabora con la rivista Sinestesie  (www.rivistasinestesie.it). Ha pubblicato saggi e articoli, anche in riviste e pubblicazioni internazionali su Foscolo, Balzac, D’Annunzio, Pirandello, Moravia…

Per consentire una migliore fruibilità del saggio del prof. Favaro a chi non conosce la lingua francese o tedesca, proponiamo la traduzione del passaggio riportato nell’articolo, relativo al pensiero di Yves Bonnefoy, e della poesia di Paul Célan. Ci asteniamo invece dal produrre traduzioni delle poesie di Yves Bonnefoy per rispettare un suo pensiero (“E poi asserisce con sicurezza che tutta la poesia è intraducibile!”)…

« Leopardi è stato lo spirito lucido che – uno dei primi in Occidente – ha aperto il suo pensiero a questa evidenza respinta nei secoli in modo ostinato: sapere che l’essere non è, che non c’è intorno a noi e in noi, nel divenire e nell’illusoirio, che movimento di materia semplice. Ma questa idea, da sola, non sarebbe stata la verità più profonda. È importante capire che la cosa umana non è che il nulla, in effetti, dal punto di vista del suo posto nella natura, la persona che vive in questo corpo mortale è – al contrario – essa stessa l’essere medesimo ogni volta che decide di volerlo, cioè se riconosce a qualcun altro, o a qualche cosa o a qualche principio, il valore ai suoi occhi di un assoluto che io chiamo la presenza. Perché allora ci si iscrive nel progetto di un luogo separato, di una terra.»

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Todesfuge

Dal mattino alla sera latte nero noi beviamo
Noi beviamo sia a pranzo sia a colazione noi lo beviamo di notte
Noi beviamo e beviamo
Noi scaviamo una tomba fra i venti dove non si sta stretti
Un uomo abita in una casa gioca con i serpenti e scrive
Scrive quando fa buio in Germania i tuoi capelli dorati Margarete
egli scrive e esce dalla casa e brillano le stelle
egli fischia richiamando i suoi mastini
egli fischia ai suoi ebrei li lascia scavare una tomba nella terra
lui ci ordina adesso di suonare e danzare

Dal mattino alla sera latte nero noi beviamo
Noi beviamo sia a pranzo sia a colazione noi lo beviamo di notte
Noi beviamo e beviamo
Noi scaviamo una tomba fra i venti dove non si sta stretti
Un uomo abita in una casa gioca con i serpenti e scrive
I tuoi capelli di cenere noi scaviamo una tomba fra i venti
Dove non si sta stretti
Egli dice di affondare le pale nella ricca terra gli uni e gli altri cantano e suonano
Egli giocava con la pistola cinturone e lo muove i suoi occhi sono blu
Scava profondamente con la vanga gli uni e gli altri suonano e ballano

Dal mattino alla sera latte nero noi beviamo
Noi beviamo sia a pranzo sia a colazione noi lo beviamo di notte
Noi beviamo e beviamo
Un uomo abita in una casa i tuoi capelli dorati Margarete
I tuoi capelli color cenere egli gioca con la frusta
Egli dice suonate dolcemente la morte la morte è un maestro in Germania
Egli di suonare più scuro il violino poi salgono come fumo nell’aria
Poi voi avete una tomba nelle nuvole dove non si sta stretti sicuramente

Dal mattino alla sera latte nero noi beviamo
Noi beviamo sia a pranzo sia a colazione noi lo beviamo di notte
Noi beviamo e beviamo
La morte è un maestro in Germania i suoi occhi sono blu
Lui mi colpisce con una pallottola di piombo egli mi colpisce sicuramente
Un uomo abita in una casa i tuoi capelli dorati Margarete
Egli aizza i suoi mastini e ci regala una tomba nell’aria
Egli gioca con i serpenti e sogna la morte è un maestro in Germania

i tuoi capelli dorati Margarete

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