Il contratto
Finalmente, un contratto a tempo indeterminato, dopo dieci anni di attese, di cambi, di dinieghi, di paure, soprattutto di paure. Sì, perché un contratto ti libera dalle paure più concrete e angoscianti: come si paga l’affitto? Con cosa si procura il pane a tavola? Lavarsi e due stracci per cambiarsi?
Carmela era arrivata a Bergamo dalla Calabria, dieci anni prima. All’inizio era stata dura. Non conosceva nessuno, da sola a trent’anni, con un diploma di istituto tecnico commerciale e tante speranze tutte inequivocabilmente deluse dalla realtà, che in quanto tale non si preoccupa né si mobilita per realizzare sogni o colmare desideri. Al contrario, tutto, ma proprio tutto si era messo di traverso: la famiglia l’aveva abbandonata a sé stessa, non appena aveva varcato il confine dalla Conca del Re di Castrovillari, verso Cosenza, per andare a prendere il treno. Le ultime parole della madre, in una mattina gelida, come soltanto in quel paese circondato da monti, tutto verde e striato di rocce grigie, ma d’un azzurro che si beve con gli occhi, erano state: «Milano? Arrivi a Cosenza e vai a Milano? Qui però non ci torni più!» Pronunciate con astio immotivato, ma deciso. Fingendo di non udire, senza avere alcun timore, sicura, era andata via. Lei era sempre stata una donna concreta e positiva, nulla l’aveva spinta a pensare che ci fosse qualcosa di impossibile o di irreparabile, nemmeno i terremoti la spaventavano, troppi ne aveva sentiti che la scaraventavano nella notte o di giorno sulla strada. A Castrovillari non c’era lavoro, non c’era il mare, non c’erano uomini, non c’erano amici, non c’erano amiche, non aveva imparato niente, perché niente c’era da imparare fra quella gente… forse, ma in fondo anche di questo dubitava, l’unica cosa che le sarebbe veramente dispiaciuto non poter rivedere più era il Monte Sant’Angelo, dove si trovava la Cappella della Madonna del Riposo. Fin da quando era piccola vi aveva fatto il pellegrinaggio di Pasqua.
Aveva occhi verdissimi, le dicevano che erano occhi aragonesi, e lei non capiva cosa significasse, non le interessava, però le piaceva: un seno prosperoso, ma non era molto alta, certo, certo ben fatta, una donna del sud, come le diceva la nonna: buona per fare figli e… contento il marito. Ah, ma questo le era stato chiaro fin dai suoi dodici anni, con le mestruazioni: figli non ne voleva, e per il marito, mica dipendeva solo da lei. Comunque, Carmela era una donna concreta e positiva. Il suo punto forte era il sedere, le natiche, o come dicevano i suoi coetanei “il culo”. Sì, sì, si dice culo! A scuola la chiamavano la cubana, e non era certo per la carnagione olivastra o per i capelli nerissimi, no. Era per il culo. Il professore di matematica le aveva detto che doti in matematica non ne aveva, non era cosa sua la materia, ma con quel… stava per dire culo, ma poi aveva virato su: “personale”. Con quel personale avrebbe potuto fare tutto quello che voleva. In verità pensava ad altro… quel saggio calabro che la sapeva lunga sul mondo, sulle donne, e sulle funzioni esponenziali e logaritmiche, sulle equazioni esponenziali e logaritmiche. O almeno così era convinto e convinceva.
Il viaggio, la ricerca di un alloggio prima a Milano, dove era stata confinata con altre ragazze in un appartamento, che sembrava un centro di accoglienza migranti, e poi grazie ad un brav’uomo, un sacerdote della chiesetta di San Carlo al Lazzaretto, aveva risolto tutto. Il Don le aveva spiegato tutto quello che avrebbe dovuto e non avrebbe dovuto fare, quel che era giusto e quel che era sbagliato, e poi le aveva indicato che la confessione è la soluzione per la salvezza, l’aveva invitata in canonica, e, un pomeriggio, in cambio soltanto di un servizietto, semplice, semplice, l’aveva assolta e le aveva trovato un lavoro. Così era approdata a Bergamo.
Anzi Bèrghem come dicevano lì. C’era la città alta e quella bassa… lei come tutti gli altri “immigrati” stava nella città bassa, ma ci stava bene. Era ospite di una anziana nonnina, che avrebbe dovuto accudire, ma che parlava in un dialetto incomprensibile. La lingua dei galli… cioè dei latini e poi dei galli. Ma lei non ne sapeva nulla né di latini né di galli. All’inizio i famigliari della nonnina le avevano detto di vedere un film e che alla fine del film avrebbe imparato il dialetto. Pazientemente Carmela, da brava trentenne, il film se l’era visto: L’albero degli zoccoli di un certo Olmi. Della lingua non le era rimasto nella testa nemmeno un vocabolo. Ma aveva imparato perfettamente come si viveva in campagna, come si stava in quelle famiglie, che i bambini li trattavano male, che tutti erano duri e insensibili, ma soprattutto che c’era sempre una nebbia squallida. E i vecchi e le vecchie del film erano tutti uguali alla sua nonnina.
Carmela non legge i giornali, perché si annoia, non guarda la tv, perché si addormenta, usa il cellulare al più per telefonare, le sembra troppo difficile chattare, andare sui social, googlare informazioni, così lei è rimasta al 2010, e invece siamo nel 2020. Quello che sa lo apprende ascoltando le conversazioni per strada, ma a Bergamo tutti parlano in bergamasco, anche gli extracomunitari. Ha imparato soltanto pòta… ma non lo usa mai, perché non sa quando è il caso di dirlo, loro ce l’hanno sempre sulle labbra. Per sopravvivere ha comunque dovuto capire bene «lé laùra» e «nóter an laùra».
È concreta e positiva, sorride a tutti, pensa che prima o poi un lavoro lo troverà anche lei, intanto per nove anni bada alla nonnina, che capisce soltanto a gesti e sguardi. Il clima è un po’ più rigido che a Castrovillari, ma qui c’è più neve, una neve che ha contagiato anche le persone, che ce l’hanno nel cuore, secondo lei, la neve.
Da quando è arrivata qui, ormai sono nove anni, tutti le dicono che questa è la città dei Mille, e lei rimane interdetta: cerca i Mille, ma Mille che? Una volta un amico della nonnina le ha anche detto che senza i Mille lei mica sarebbe stata italiana. Glielo ha detto in dialetto, ma poi si è tradotto e lei ha capito. Però continua a cercare chi siano e dove siano ‘sti Mille. Lo vede sempre scritto maiuscolo, quindi pensa che siano molto importanti. Anche a Bergamo non ha amici; il suo culo è sempre da cubana, i suoi occhi sempre più verdi e anche i capelli come a vent’anni… sì, è uscita con qualcuno, qui ci sono tanti ragazzi e belli, altroché belli, anche se non capisce quando parlano e sembrano degli orsi che emettono tremendi e spaventosi suoni gutturali. Ma poi per certi giochini non serve parlare, però così poi non li vede più. Si diverte anche lei: le lasciano una bella sensazione questi giochini, come dicono gli scècc, e poi addio.
Ecco, un giorno la nonnina si è ammalata: ha 89 anni. La hanno portata via, sta in un ospedale. Lei è a casa da sola. Una casa fredda, troppo grande, piena di cianfrusaglie e di foto. I parenti della nonnina fanno avanti e indietro, ma sono nervosi, prima gentili adesso nemmeno si avvicinano, tutti hanno mascherine, tutti hanno guanti, tutti corrono. Le dicono che deve andare al supermercato a parlare con il titolare, il dottor X: a via Tiraboschi c’è il Carrefour Market, è aperto fino alle 21.00. Prima va e meglio è. Va bene, va bene. Le strade da un mese sono vuote. Lei non è uscita: fa freddo e deve stare con la nonnina, che le ripete che sta male e non può respirare e allora Carmela prepara camomilla colma di miele, e gira, gira per farlo sciocliere. Ma la tosse è brutta. Tutta la notte tossisce. Adesso da una settimana è all’ospedale e allora lei non fa altro che pregare, come le hanno insegnato quando ci si ammala. Si mette davanti al quadro della Madonna che sta in camera da letto della nonnina, e prega. Dice soltanto alla mamma celeste di salvare la nonnina, di salvare lei, di salvare tutti quelli che conosce, ma anche quelli che non conosce, perché non le hanno fatto nulla di male, perché non salvarli? Prega… prega…
Al Carrefour tutti in fila… con mascherine e guanti. Lei non sa che fare. Non ha mascherina e non ha guanti. Le urlano brutte parole in dialetto, ma non le intende. Va dal dottor X. Parlano da un vetro, lui è distante e distratto. Sì sì va bene può cominciare dal giorno successivo, c’è bisogno di personale. «Signora si rende conto? Qui la gente muore! Muoiono tutti!» e si mette a piangere, un uomo di sessant’anni, con una pancia ragguardevole… è sconvolto. E lei pensa che stasera pregherà anche per il Signor X, il direttore del supermercato, che è buono e piange disperatamente. Lei è concreta e positiva. Lo dice al Signor X salutandolo da lontano che lei è positiva e bisogna essere positivi. Lui guarda sconcertato.
Tornando a casa si guarda intorno… e rimane perplessa: un lungo convoglio di camion militari. «Ma c’è una guerra? Siamo in guerra?» farfuglia e corre a casa, a pregare per tutti e per il direttore che piange, e a ringraziare la mamma celeste, perché dopo dieci anni ha finalmente firmato un contratto a tempo indeterminato.
Angelo Fàvaro
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