Letteratura americana

1933 Un anno terribile

Fante John

Descrizione: Figlio di immigrati, Dominic ha un grande talento, quasi da cartone animato: il suo braccio. Lo cura, lo allena, lo protegge dai rigori invernali con tubetti e tubetti di balsamo Sloan, sa che grazie a lui, soltanto grazie a lui, potrà riscattare se stesso e la sua famiglia dalla condizione di inferiorità che stanno vivendo, diventando «Dom Molise, il più grande Mancino della Major League». La più grande promessa del baseball della West Coast.

Categoria: Letteratura americana

Editore: Einaudi

Collana: Super ET

Anno: 2018

ISBN: 9788806238223

Recensito da Elpis Bruno

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1933 Un anno terribile di John Fante

1933 Un anno terribile può essere definito romanzo claustrale, dove l’antagonista dell’eroe non ha faccia, è un universo di valori assillanti, un universo omicida, così qualifica l’opera Vincenzo Cerami nella sua prefazione.

E, se non c’è un antagonista, una cosa è certa: quest’opera ha un notevole protagonista, Dominic Molise (“Vivevo a Roper, Colorado, e invecchiavo di ora in ora”) e numerosi deuteragonisti: i familiari di Dominic.

Il protagonista e suoi interlocutori

Dominic ha due interlocutori: il suo Braccio (“Ma il Braccio mi dava la forza di andare avanti, il mio dolce braccio sinistro, quello più vicino al cuore”) e Dio (“Il mio braccio, il mio benedetto, santo braccio che mi era stato dato da Dio, e se anche il Signore mi aveva creato figlio di un povero muratore, mi aveva però fatto un gran regalo quando aveva fissato sui cardini della clavicola quella centrifuga”). Perché Dominic ha un sogno (“Tutti i grandi giocatori di baseball erano venuti da famiglie povere”) e allora il Braccio, strumento necessario per la realizzazione del sogno, diventa un’antonomasia (“Il Braccio, il mio buon braccio sinistro, prese in pugno la situazione e mi disse parole di conforto”) e acquista identità vitale autonoma (“Oh, Braccio! Braccio forte e fedele, parlami con dolcezza… “Dimmi che fama fortuna e vittoria ci apparterranno”), degna di cura quotidiana (“Presi la bottiglia del Balsamo Sloan… mi massaggiai Il Braccio con quell’unguento dall’acuto odore di pino”).

I deuteragonisti

Sono i familiari di Dominic (“Era una casa molto affollata”).

Innanzitutto la nonna (“Nonna Bettina, acerrima nemica della società dell’energia elettrica… minuta e fiera, con mani così scarnite che e sembravano artigli…Parlava solo italiano, e faceva finta di non capire l’inglese ogni volta che l’argomento non le andava a genio”), impareggiabile donna che non si rassegna alla condizione di emigrata (“È un libro che racconta di tuo padre che è disoccupato da sette mesi, o della promessa di ricchezza dell’America dorata, terra di uguaglianza e fratellanza, la bellissima America che puzza come una ferita marcia?”), non rinuncia ai suoi principi basati sulla religione-superstizione (“Tutti i ragazzi di diciassette anni dovrebbero confessarsi almeno due volte al giorno”) né al suo sogno di rimpatriare ad ogni costo (“Mettetemi in una cassa e rispeditemi a Torricella Peligna!”) ed è determinata a combattere i nemici americani (“Leggera come un vecchio gatto si avvicinò alla lampadina nuda sul tavolo e la spense”). A lei Dominic si rapporta in un modo così conflittuale  (“Muori, vecchia!”) da scatenare i passaggi più umoristici dell’opera.

Poi ci sono i fratelli August, Clara e Frederick.

La mamma è una figura recessiva (“Mettiti la calza. E continua a pregare”), lancia assist d’umorismo alla narrazione (“Ma l’idea di pregare la madre di Dio perché mi appiattisse le orecchie, dal momento che suo Figlio le aveva fatte sporgenti, mi sembrava pura follia”) ed è sorretta dalla gelosia (“Una bella casa, quattro stupendi ragazzi, spaghetti sulla tavola, vino in cantina, eppure esce tutte le sere”).

Infine, figura immancabile nei romanzi di Fante, c’è lui, il capofamiglia, il carpentiere disoccupato (“C’è la depressione… e oltretutto è inverno. Con questo tempo papà non può certo fare il suo lavoro”) Peter Molise, fedifrago (“Niente tranne rossetto”), impotente (“Siamo nei guai… dobbiamo soldi a tutti”) e onnipotente al tempo stesso (“Ci manteneva giocando a biliardo, in inverno”) con il suo sogno di continuità artigianale (“Mi stai chiedendo di usare questa per posare mattoni?”), eppure disposto a rinunciare (“Manda i soldi”) in nome del sogno del figlio (“I Chicago Cubs… I miei futuri compagni di squadra”).

Una bella famiglia, vero?
Sognatori, eravamo una casa piena di sognatori. La nonna sognava la sua casa nel lontano Abruzzo. Mio padre sognava di essere senza più debiti e di fare il muratore a fianco di suo figlio. Mia madre sognava la sua ricompensa celeste con un marito allegro che non scappava via. Mia sorella Clara sognava di fare la suora, e il mio fratellino Frederick non vedeva l’ora di crescere per diventare un cowboy. Se chiudevo gli occhi riuscivo a sentire il ronzio dei sogni per tutta la casa…”

Un romanzo di formazione?

A modo suo – con tanta ironia – lo è. Con un sogno erotico (“C’era una donna accanto al letto… Mi guardò e sorrise. Per un attimo pensai che fosse Carole Lombard”), con la visione del sesso (“Spaventosa come un nido di topi… oscena ma obbligatoria, terribile confronto al quale prima o poi doveva sottomettersi ogni uomo”), con la scoperta del desiderio (“Ogni particolare… mi trasmetteva una pulsazione intorno alla vita e alle cosce e le faceva vibrare come un tamburo tesissimo… All’inguine il tamburo si tese ancora di più, e ondate di dolore mi attraversavano la schiena e mi scendevano giù per le gambe. Mi era venuto duro come un giavellotto vibrante…”) per Dorothy Parrish (“Andò verso la cucina, sinuosa come un serpente dorato”) la sorella dell’amico Kenny (“Gli raccontai della betoniera di mio padre e di come il mio piano fosse di prenderla in prestito”).

Un finale aperto

Il finale è di grande impatto e commozione, è un ponte sul futuro per continuare a sognare: “La betoniera… l’abbracciai e la baciai, e piansi per mio padre e tutti i padri, e anche per i figli, perché eravamo vivi in quell’epoca, per me stesso, perché sarei dovuto andare subito in California, e non avevo scelta, dovevo farcela.”

Bruno Elpis

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