Peter chiamò il dottor Atkinson e avvisò Mary della situazione. Il medico arrivò a Garden Lodge e fece a Freddie un’iniezione di morfina. Non ci sono indicazioni, spiegò Atkinson: Freddie potrebbe tirare avanti inqueste condizioni per alcuni giorni come potrebbe lasciarci da un momento all’altro. C’è ben poco da fare ormai, se non aspettare e stargli vicino. Mary si presentò poco più tardi e rimase per qualche ora con lui, sola in camera. Freestone, nel frattempo, avvisò la famiglia Bulsara dell’aggravarsi delle condizioni di Freddie. È il caso che veniamo a vederlo? chiese mamma Jer. Non è necessario, rispose Freestone, non sta molto bene, aspettate qualche giorno quando si sentirà un po’ meglio. «Vivo nel rimorso di non aver permesso ai suoi cari di venire a vederlo nel pomeriggio.» Allarmato dal precipitare della situazione, piombò a Garden Lodge Dave Clark, e nel pomeriggio arrivò anche Terry Giddings. Intorno alle sei e mezza, il dottor Atkinson disse che la sua presenza al momento non era più necessaria e chiese a Joe di accompagnarlo ai Mews, dove aveva posteggiato l’auto.
Gli ultimi, confusi, istanti
Le testimonianze, a questo punto, diventano inevitabilmente confuse, frammentarie e contrastanti. Freestone ricorda che «Freddie e Dave Clark stavano di sopra; io, Jim, Joe, Terry e Gordon Atkinson rimanemmo al piano di sotto, in cucina». E mentre Fanelli accompagnava il dottor Atkinson ai Mews, «Dave Clark chiese a me e a Jim di salire su per aiutare Freddie, che doveva andare in bagno. Giunti al suo capezzale, provammo a metterlo in una posizione più comoda, ma aveva smesso di respirare». Hutton ha raccontato in modo diverso gli ultimi istanti. «Chiesi a Dave di uscire un momento dalla stanza», poi, mentre aiutava Freddie a risistemarsi sul letto, «lo sentii tentare di sollevare la gamba sinistra per darmi un piccolo aiuto. Fu l’ultima cosa che fece. Abbassai lo sguardo sulla sua faccia e mi resi conto che era morto». Clark, ricorda Hutton, «era ancora sulla porta quando Freddie morì». Dave Clark, in un’intervista all’Express, raccontò tempo dopo che «i dottori se n’erano andati e sapevamo ormai che era soltanto questione di tempo. Eravamo soli quando è morto. Sono corso al piano di sotto per chiedere aiuto a Phoebe, il suo assistente personale, e a Joe. Mary Austin è arrivata subito e ha chiamato i genitori di Freddie per dare la notizia». (…)
Ore 18.48
Freddie Mercury, nato Farrokh Bulsara, lasciò questo mondo alle ore 18.48 di domenica 24 novembre 1991. La villa all’1 di Logan Place piombò nel caos. Freestone telefonò a Fanelli, che stava lasciando i Mews, urlandogli di fermare il dottor Atkinson: digli di tornare subito, Freddie è morto! Joe rincorse l’auto, buttandosi praticamente davanti al cofano della vettura per bloccarla: dottore, Freddie è morto, si fermi! Alla «fermata del ventisette», sentendo questo trambusto, i giornalisti si accorsero che a Garden Lodge stava accadendo qualcosa di grave. Atkinson rientrò immediatamente e a passi lunghi salì in camera da letto di Freddie, lo visitò e non poté far altro che constatarne il decesso. Sul certificato scrisse: «Ora delle morte: sei e quarantotto p.m.». Roger Taylor, ignaro dell’accaduto, stava per passare a far visita al vecchio amico: «Stavo andando a trovarlo, ed ero quasi arrivato, quando mi chiamò Peter Freestone per dirmi che Freddie se n’era andato».
I genitori, finalmente, vennero
Freestone, figlio del direttore generale delle pompe funebri John Nodes, provò a prendere in mano la situazione. Per prima cosa cercò di contattare Jim Beach, con John Libson l’esecutore testamentario di Mercury, e dopo un’ora riuscì a sentirlo da Los Angeles, dove «Miami» si trovava per affari dei Queen. Beach chiese se fosse possibile lasciare il corpo di Freddie a Garden Lodge fino al lunedì, in modo che lui potesse tornare e accompagnare la salma, ma Freestone e Hutton risposero che non era una buona idea. I tre raggiunsero un compromesso: non facciamo uscire Freddie di nascosto da casa, se i giornalisti se ne accorgessero penserebbero che vogliamo nascondere la notizia. (…) In serata, mamma Jer e papà Bomi arrivarono per salutare il loro figliolo. Com’è bello, sospirò la madre dandogli una carezza sul viso. «Freddie appariva così sereno, estatico e radioso che loro chiesero se per caso lo avessimo truccato», ha raccontato Hutton. «Gli rispondemmo di no.»
In tempi di AIDS, la prassi voleva che il corpo fosse portato via all’interno di un sacco, obbligatorio in caso di malattia contagiosa, sistemato in un anonimo contenitore in vetroresina. Peter e Jim si opposero e ottennero che fosse utilizzata una cassa in legno di quercia. (…) Il carro funebre, un anonimo furgone di colore nero, entrò in retromarcia nei Mews. E mentre gli addetti dell’agenzia di pompe funebri senza mostrare alcuna emozione cominciavano a svolgere il proprio lavoro, Roxy Meade finiva di limare il comunicato che di lì a poco avrebbe consegnato ai reporter in attesa fuori dal portone di Garden Lodge. A mezzanotte in punto, esattamente come ventiquattr’ore prima, la portavoce dei Queen aprì il portone verde e venne circondata dai giornalisti, ai quali consegnò un foglio con una stringata dichiarazione di due righe. Freddie è morto pacificamente questa sera. La sua morte è dovuta a una broncopolmonite causata dall’AIDS. (…)
(…) Qualche minuto più tardi, a mezzanotte e venti, Freddie lasciava per l’ultima volta Garden Lodge sul furgone nero mentre la polizia, che aveva concordato le operazioni con Terry Giddings creando un blocco stradale, riuscì a impedire a reporter e paparazzi di seguirlo. Il corpo di Freddie Mercury venne portato al sicuro in un luogo segreto in Hewer Street, dove si trovava il magazzino con le celle frigorifere dell’agenzia John Nodes. A Garden Lodge il telefono cominciò a squillare in continuazione. Barbara Valentin, ignara del fatto che Freddie fosse morto, chiamò per scambiare quattro chiacchiere con lui e chiedergli come stava. (…) Peter e Joe si divisero l’ingrato compito di avvisare gli amici, anche se la notizia della morte di Mercury ormai aveva già fatto il giro del mondo. Jim non se la sentiva, rimase impietrito tutto il tempo. Poi, intorno alle quattro di notte, gli abitanti di Garden Lodge, stremati dalla giornata, andarono a letto a cercare di dormire.
Nella casa scese un silenzio irreale. In cucina era rimasta ammonticchiata la posta del giorno – in prevalenza lettere di fan, biglietti d’auguri, cartoline – che come ogni mattina Peter o chi per lui prelevava dalla cassetta di Logan Place e sistemava sul piano della credenza. Quel giorno, naturalmente, nessuno aveva trovato il tempo di guardarla, riordinarla e smistarla. Sopra quella pila di carte campeggiava una cartolina firmata «Ratty». Peter «Ratty» Hince era il roadie di Freddie, il tecnico personale, l’uomo dai capelli lunghi che sul palco ha passato qualcosa come seicentocinquanta volte il famoso microfono a stiletto a Mercury. (…) «Ratty», in vacanza da qualche parte in giro per il mondo, aveva pensato di mandare un augurio di pronta guarigione al suo vecchio compagno di battaglie in tour, e la cartolina, per una di quelle strane combinazioni della vita, era arrivata a Garden Lodge proprio domenica 24 novembre 1991. Se l’avesse letta, Freddie sarebbe scoppiato in una fragorosa risata. Il messaggio diceva: «Sbrigati a stare meglio, vecchio bastardo!»
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