Narrativa

Al giardino ancora non l’ho detto

Pera Pia

Descrizione: «Un libro dolente e luminoso» - Michele Serra "Per molti versi, avrei preferito non dover pubblicare questo libro, che non esisterebbe se una delle mie scrittrici preferite - non posso nemmeno incominciare a spiegare l'importanza che ha avuto nella mia vita, professionale ma soprattutto personale, il suo 'Orto di un perdigiorno' - non si trovasse in condizioni di salute che non lasciano campo alla speranza. Eppure. 'L'orto di un perdigiorno' si chiudeva con una frase che mi è sempre sembrata un modello di vita, un obiettivo da raggiungere: "Ho la dispensa piena". Oggi questa dispensa, forse proprio grazie alla sua malattia, Pia ha trovato modo di aprircela, anzi di spalancarcela. E la scopriamo davvero piena di bellezza, di serenità, di quelle che James Herriot ha chiamato cose sagge e meravigliose, di un'altra speranza. È davvero un dono meraviglioso quello che in primo luogo Pia Pera ha fatto a se stessa e che poi, per nostra fortuna, dopo lunga riflessione ha deciso di condividere con i suoi lettori. Non posso aggiungere molto, se non raccomandare con tutto il mio cuore la lettura di un libro che, come pochi altri, ci aiuta a comprendere la straordinaria avventura di stare al mondo." (Luigi Spagnol)

Categoria: Narrativa

Editore: Ponte alle Grazie

Collana: Scrittori

Anno: 2019

ISBN: 9788833313313

Recensito da Elpis Bruno

Le Vostre recensioni

Al giardino ancora non l’ho detto di Pia Pera trae ispirazione da una poesia di Emily Dickinson (“Ed eccomi approdare alla poesia di Emily Dickinson, la n. 50, I haven’t told my garden yet, dove si suggerisce che verrà un giorno in cui il giardiniere non terrà fede all’appuntamento consueto. Il giardino questo non lo sa”) e da una preoccupazione (“È per Macchia e per il giardino che è veramente indispensabile trovare qualcuno che prenda il mio posto”), oltre che dal senso di protezione per gli esseri viventi (“È per Macchia che cerco di restare – i cani si ritrovano talmente indifesi, quando muore chi se ne prende cura”) che dipendono dall’autrice e che sono variamente minacciati dal progredire della sua malattia degenerativa (“C’era un disegno, in men che non si dica sarà cancellato”).

Inizialmente Pia si attacca al filo sottile della speranza (“Quando nuoto… lì è tutto come prima. Forse l’acqua è un elemento più gentile”), ai tutori e ai supporti contro la disabilità (“Questo bastone davvero mi mette allegria. Asseconda la mia vocazione al dispotismo”) e confida nelle cure.

Intanto l’idea della morte si fa strada (“Metafisica: non esserci più. Sparire. Abbandonare. Il nulla”) e aleggia (“Sarà anche il nulla la meta finale. Di cruciale importanza, tuttavia, il mezzo di trasporto per arrivarci. Morire soffocati è come viaggiare pigiati in un carro di bestiame”) sulle giornate che scorrono a fasi alterne tra empiti di creatività (“Adesso, costretta all’ozio. Ho solo da pensare, immaginare, progettare”), impennate volitive (“Chissà se i piccoli erigeron sono riusciti a respirare. Mi metterò i copribrache, ci andrò a quattro zampe, e speriamo di riuscire a rimettersi in piedi”) e momenti di sconforto di fronte all’incertezza della diagnosi (“Finché una dottoressa di Roma… ha detto che se proprio ho qualcosa, questo qualcosa è sclerosi multipla”).

Dopo il fallimento dei tentativi terapeutici (“Ho provato tante cose, ma anche: le ho abbandonate tutte, dopo un po’. Il riluzolo. La cura della dottoressa di Roma. La dieta della dottoressa di Alghero… La terapia chelante per liberarmi dei metalli pesanti. Le medicine ayurvediche… agopuntura…”), Pia si affida a un custode-giardiniere (“Giulio… Curioso come questo omone … dello Sri Lanka abbia gesti pieni di delicatezza, cura nel vestirsi, e capisca al volo come mantenere un’armonia tra selvatico e coltivato”) e, controvoglia, ne accetta la convivenza (“Giulio ha traslocato da me”).

Il pessimismo monta con l’infittirsi delle crisi (“Queste crisi respiratorie sono in realtà attacchi d’ansia”), il panico dilaga (“Campanello d’allarme al collo, bastone…”) e diviene autentico terrore (“Lasciarmi ridurre alla paralisi, all’impotenza. Il pensiero mi terrorizza”): il pensiero va al cinismo con il quale in passato lei stessa considerava l’altrui malattia (“Una gamba gonfia, un’andatura lenta, col girello addirittura. Mostruosità viste da fuori, ma da malati si comincia a sospettare che quella poco attraente persona dentro si senta e si viva precisa identica a prima”); la resa è vicina (“Io, come lei? Impossibile. Inconcepibile”), si fa remota ogni strategia d’uscita (“Un paese civile è quello in cui non viene negato l’accesso all’ultimo farmaco, in cui non si è costretti a impiegare sotterfugi e ingenti somme di denaro per procurarsi quello che non si nega agli animali domestici”).

Pia Pera ha scritto il commovente diario di chi, costretto alle corde, non vuole arrendersi e invoca un disperato senso di continuità tra riflessioni profonde, emozioni contrastanti, afflati di poesia e di filosofia che si innestano sul vitalismo di una natura che procede secondo un’estetica selvaggia, senziente e incosciente al tempo stesso.

Bruno Elpis

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