Walter Siti, Bruciare tutto
“Dio non mi parla più, mi ha abbandonato al buio in preda alla censura spasmodica dei miei desideri; ma lo molesterò fin che non mi parlerà di nuovo.”
Il mondo e la vita sanno essere incredibilmente semplici, talvolta addirittura banali, viaggiando su di una superficie sottile ma dura di frasi fatte, preconcetti, idee confezionate, azioni stampate quotidianamente e ripetute all’infinito: nasci, cresci – se il caso lo pretende – con un distillato di regole cattoliche, decidi supinamente di accettarle nella tua vita come una musica di sottofondo o, con la stessa leggerezza e disinteresse, decidi di abiurare a tutto e disinteressartene completamente: la struttura mentale che è alla base di questa o quella scelta è assolutamente la stessa, ossia la più semplice e indolore. Ma la vita, e il mondo con essa, cambia totalmente nel momento in cui ci si ferma frenati da un insanabile dubbio, e si inizia a scrostare e sprofondare: immenso dubbio della fede, assoluta incertezza o certezza della presenza di Dio nella nostra vita (anche la certezza può essere un problema), insensato dilemma su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato: con quali occhi dobbiamo vedere, con quelli degli uomini o quelli di Dio? È una piccola fiamma che si accende nell’animo umano e che inizia ad espandersi. Ed è proprio un parroco dilaniato, turbato, maledetto, don Leo, ad essere il protagonista di Bruciare tutto, l’ultimo romanzo di Walter Siti, edito da Rizzoli. Don Leo, trentatreenne con una schiacciante balbuzie che lo tradisce nei momenti di agitazione, arriva in una parrocchia al centro di Milano, in via Gaetano de Castillia, ai piedi del Bosco Verticale. Le mansioni sono, nel loro ripetersi, quasi monotone ma ricche di considerazioni che tormentano e distruggono, ma anche divertono e nutrono l’anima insolita di don Leo: confessioni, oratorio, ritiri, preghiere tormentate e l’allestimento di un “rifugio” per migranti. Ad un certo punto però l’equilibrio crolla: Massimo, vecchia conoscenza di don Leo, decide di chiamarlo per tentare fortuna nella capitale economica. La memoria del parroco è sotto scacco, presa d’assalto da ricordi macabri che ha voluto, negli anni, stratificare sotto l’insistente ma labile velo del passato. Già perché don Leo, ai tempi soltanto Leo, e Massimo hanno avuto una relazione sessuale. Nulla di strano fin qui, se non fosse che Massimo era un bambino non del tutto innocente delle borgate romane, mentre Leo poco più che ventenne, già adulto insomma. È il corpo angelico, piccolo, puro dei bambini ad essere l’oggetto del desiderio di don Leo, oggetto però costantemente represso da quella storia in avanti, ossessivamente calciato indietro: Dio, perché hai voluto tutto questo? Basta, Massimo condurrà la sua vita senza troppo intralciare quella di Leo. Ma un altro bambino, un arguto intellettuale di nove anni, figlio disperato e rassegnato di genitori indegni, violenti e patetici, terribili e mostruosi si fa strada nella vita di Leo. Si chiama Andrea e inizia a frequentare il doposcuola con don Leo, insignito per l’occasione del compito di aiutarlo con le varie materie. È un bambino non come tutti gli altri: percepisce tutto ciò che è intorno a lui: il padre in carcere, la madre sfuggente, inafferrabile, costantemente ubriaca. Unica salvezza: «Leo … ti amo. Posso toccarti il pisello?». Prova divina, parola di Dio che si fa carne: la risposta è attentamente calcolata: «Io sono capace di leggere dentro l’anima, lo sai? e so che questi atti osceni non si devono fare». La furia di Andrea che fugge via, la prova è superata: mio caro Dio, sei un bastardo, ma ho vinto io. Tutto però è destinato a precipitare divinamente, a detonare secondo un assetto prestabilito: ad ardere, insomma, annichilendo finalmente ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.
Pasolini, nella sua ultima intervista nel 1975, a pochi giorni dall’uscita di Salò o le 120 giornate di Sodoma, diceva: “Io penso che scandalizzare sia un diritto, essere scandalizzati un piacere, e chi rifiuta di essere scandalizzato è un moralista”. Partiamo da questa frase significativa per analizzare il romanzo che ha sollevato e continua a sollevare critiche e attacchi dal mondo intero della cultura. È un romanzo certamente ben scritto, ben articolato e intrecciato, in cui la complessa psicologia del personaggio si muove in un mondo falso, ipocrita e meschino. Ma una domanda sorge spontanea via via che si scorrono le pagine: a che gioco sta giocando Siti? È come se ogni scelta stilistica, ogni passaggio, quasi ogni parola scritta sia stata attentamente pensata e pesata, scelta, plasmata ad hoc per la messinscena finale: è la prima che conta, tutto deve essere perfetto, nessuna replica. Siti lo sa: il mondo gli piomberà addosso, occorre costruire un riparo ben fatto e ben intessuto. Il romanzo è apertamente e volutamente diviso in due, segnato da una spessa corda che a pagina 172 recide con forza l’aldiquà e l’aldilà. Nella prima parte, semplicemente, non accade nulla: don Leo si muove in un contesto a lui nuovo, una chiesa centrale in cui vengono celate – ed è scontato – le doppie e triple e quadruple vite di chiunque metta piede nel confessionale. Storie bizzarre si intrecciano a pensieri articolati e profondi, interrogativi veri sul senso di sé e della fede, sul senso del proprio operato alla luce delle nuove situazioni. Nulla riesce davvero a scandalizzare la mente provocatrice e realista di don Leo. Ma d’improvviso, a pagina 172 per l’appunto – esattamente come fosse un apparentemente banale intervento chirurgico che inizia senza preavviso a sanguinare senza tregua –, l’emorragia inizia a espandersi senza scampo e il lettore si trova a dover affrontare un universo che d’improvviso piomba sulle spalle, pesante e lacero. La telefonata di Massimo, la rivelazione degli istinti fra i più intimi e dolci e allo stesso tempo più macabri e dilanianti. Il termine solo fa rabbrividire: pedofilia. Di chi è la colpa, di Dio che così ha creato o di Leo che così ha voluto? In una situazione sicuramente costruita ma non per questo meno verosimile, Siti ci pone di fronte ad uno dei dilemmi più seri, presenti, reali, pesanti e imminenti: se non esiste giusto e sbagliato, cosa scegliere? E ancora: fra l’Uomo e Dio, fra morale e verità, fra ragione e istinto, fra vita condannata e morte, quale può essere la scelta migliore? Le domande senza alcuna risposta possibile, terribili, angosciose e diaboliche, afferrano e stringono dalle viscere. Terminata l’ultima pagina è la condanna definitiva che piomba, di peso, sul lettore: l’istinto è quello di lanciare il libro più lontano possibile, di strappare ogni singola parola scritta, di gettare tutto tra le fiamme oblianti. È un testo duro, che smuove la coscienza e la morale nella sua prosa leggera e scorrevole, senza via di fuga e senza soluzione. Per gli stessi istinti, per moti meccanici di difesa, una lettura superficiale e omologante è il primo rischio, forse il maggiore, nel quale si potrebbe incorrere. Altro rischio è di condannare Siti a priori: ci sono situazioni nelle quali non può darsi o concedersi una scelta. Ma, ed è questo, forse, il rischio più pericoloso, bisogna accettare la provocazione, bisogna farsi imbrigliare ora e per sempre, bisogna accettare la sfida che Siti, magistralmente, tuona. Anche nel nostro Paese, nella nostra città, nella nostra casa e nel nostro nucleo familiare, ché ne dica la morale cattolica, non esiste e non può esistere sempre e invariabilmente il binomio esclusivo ed escludente bene-male (o Bene o Male, possiamo convocare e scomodare il filosofo che sapeva usare il martello: Nietzsche docet: Al di là del bene e del male). Ci sono universi, mondi, luoghi interiori ove non si può che oscillare fra l’eterna dannazione o l’annullamento totale: la ragione, la morale, forse anche i suggerimenti dettati dal buonsenso appaiono nell’epoca della post-verità destinati a lasciarci nella confusione, senza armi valide a vincere l’indecidibile. Questo romanzo che non è solo un romanzo, ahimè, ne è una prova indiziaria, tuttavia una prova. Gusto o disgusto? Ricerca di un bello purchessia o maledizione postmoderna? Quale lo scopo della scrittura? Quale il fine ultimo dell’autore? Rassicurare sulle nostre manie e sulle nostre certe e invariabili perversioni? O fustigare l’ipocrisia borghese? Rimane una sensazione di turbamento profondo, uno smarrimento cosmico, come un senso di castigo intimo. Cosa decidere nell’indecidibile? Cosa scegliere? La serie interrogativa non è retorica, ma sintomatica. Scelta? Possiamo continuare a vivere senza comprendere e capire, ottusamente come se non avessimo letto Siti, senza sprofondare negli anfratti reconditi della contraddizione umana, accettando intimamente lo scandalo, o possiamo provare a cominciare a vivere penetrando, scorgendo, riflettendo sull’abisso (non solo metaforicamente), ma sapendo di rimanerne per sempre immondamente macchiati. E dunque, fra non leggere questo romanzo e conservarci nella convinzione e nella presunzione della angelica purezza, o leggerlo scagliandoci nell’inferno delle nostre celate perversioni fino al nostro inconscio insondabile, cosa scegliere?
Luigi Bianco
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