«Come il giardino cresce col disegno/ il disegno cresce col giardino». Leggiamo questi due versi di Bertolt Brecht in un passaggio-chiave del nuovo libro di Roberto Galaverni, Carte Correnti (Fazi). Con quel distico, Brecht voleva probabilmente indicare il rapporto di reciproco potenziamento tra la realtà e la rappresentazione poetica. Come mettere a fuoco la vita attraverso le parole della poesia e le parole della poesia attraverso la vita. È questo uno dei motivi ricorrenti delle «lezioni» di Galaverni su quattro maestri italiani del Novecento (Montale, Zanzotto, Sereni, Fortini) e su altrettanti autori nati negli anni Cinquanta (Remo Pagnanelli, Fabio Pusterla, Valerio Magrelli, Milo De Angelis). Più precisamente, Galaverni concentra la sua attenzione attorno a singoli componimenti scelti in virtù della loro eccezionalità (tutti testi molto belli) e però anche del loro proporsi come «carte d’identità poetiche»: versi cioè che nel farsi mettono in scena, volontariamente o no, il processo di formazione della poesia.
In realtà, qualcosa di analogo avviene con il modo critico di Galaverni: nel leggere una poesia, nell’illustrarne i punti salienti, nel coglierne le ragioni, i contenuti e le forme dell’espressione (ma senza abuso di strumenti stilistici), le peculiarità e le relazioni rispetto all’opera globale dell’autore, i rapporti con i precedenti e con gli epigoni, mette in scena quelli che Maria Corti chiamava i «percorsi dell’invenzione». E lo fa ossessivamente, anzi si direbbe quasi disperatamente vista l’irraggiungibilità dell’obiettivo. Perché se verificare le ragioni e le modalità profonde del processo creativo, diciamo dalla prima ispirazione alla redazione conclusiva, è sempre una pretesa eccessiva, per Galaverni è comunque il fine ultimo a cui tendere. Così siamo resi partecipi del suo stesso percorso non certo lineare, ovvero della sua esperienza di lettore. Oltretutto, da ottimo critico militante qual è (per «la Lettura» e per il «Corriere»), Galaverni non esita a dare giudizi segnalando i rischi a cui un dato poeta va incontro (lo fa in modo particolare per gli ultimi tre, Pusterla, Magrelli e De Angelis).
È dunque, il suo, uno strano saggismo che si misura con la natura anfibia della poesia, quel «doppio senso di marcia» (il poeta è un essere bisessuale, ha scritto Mandel’stam), per cui «attraverso la lingua si prova a rendere conto della realtà nel momento stesso in cui la realtà viene adattata e da noi definita». Lo stato di necessità da cui nasce ogni buona poesia, sia esso dubbio incertezza spaesamento desiderio di testimonianza o di verità, comporta un confronto con la realtà, una visione del mondo, un’interrogazione sul senso della vita ma anche una domanda sul senso che ha, per ciascun poeta, rendere in versi quella necessità, quell’interrogazione eccetera. Dunque, Galaverni si chiede continuamente come si determina questa «formalizzazione poetica della vita». Così procedendo, anche la sua interpretazione si fa anfibia essa stessa, sicché a volte non si sa bene da dove prenderla.
Anfibia è la natura dell’anguilla che Eugenio Montale mise in versi nella celebre poesia eponima del 1948. Pesce-mostro che va «contro la piena avversa» per una eccezionale poesia-mostro che naviga altrettanto controcorrente, facendosi serpe, anguilla a sua volta («anguilla» è anagramma di «la lingua»): come alla continuità del flusso si oppone l’asperità del paesaggio montagnoso, così la musica liquida del verso viene continuamente rotta da suoni petrosi e aspri. Ma va controcorrente anche l’etica di questa poesia, decisamente tesa al movimento, rispetto all’abituale istinto di sopravvivenza montaliano portato all’ancoraggio e alla conservazione.
È una poesia che, dice Galaverni, sembra quasi sfuggita di mano al poeta nel suo farsi, e che poi è sgusciata via una seconda volta nel fiume della storia poetica producendo una nutrita discendenza di poesie anguillesche, fino a L’anguilla del Reno di Pusterla che, apparsa nel 1985, viene presa in esame come «scommessa tra continuità e superamento»: letto da Galaverni come poeta del confine e del transito, traghettatore a sua volta della tradizione novecentesca verso la condizione postuma di fine millennio, in una sorta di sfida genealogica Pusterla fa compiere al pesce-mostro di Montale un autentico testacoda immaginandolo in uno scenario da catastrofe ecologica.
Semplificando molto: in Gnessulógo, quasi un manifesto di Zanzotto sul «come mettere in forma di parola la vita», un individuo si muove come un rabdomante in un bosco e senza decidersi se andare di qua o di là compie la stessa oscillazione che compie il linguaggio, per cui l’identità disorientata del soggetto corrisponde al pendolarismo della scrittura. Doppiezza di un’anguilla che ha perso la bussola. Zanzotto, il poeta «imbrigliante» che «deve dire tutto ogni volta», è il grande rappresentante dell’età dell’ossimoro, della satura «in cui tutto davvero fa brodo» (detto ovviamente con il massimo rispetto).
Sempre semplificando, ne La malattia dell’olmo (1981) di Sereni, intenso scorcio domenicale in un paesaggio tra fiume (il Magra) e mare, il critico-viaggiatore Galaverni trova una «cartografia» delle più esplicite, la sceneggiatura di tutti i contrasti: tra fissità e movimento, tra fedeltà e rinnovamento, tra memoria personale e apertura alla vita, Sereni, il poeta dell’esperienza e della concretezza metaforica, realizza un impensabile ampliamento dei confini della poesia lirica.
Continuando a semplificare il complesso argomentare di Galaverni, nel «sistema acqueo» tanto praticato in poesia troviamo Barche sulla Marna (1938), il componimento montaliano che il critico individua come «l’avversario probabilmente più autorevole dell’Anguilla»: se l’anguilla è speranza in corsa verso la salvezza, l’acqua della Marna, come l’acqua del mare, è leopardianamente solo forza che annienta, cui può resistere semmai un «osso di seppia». Montale «poeta tellurico» è una delle tante folgorazioni definitorie che ci regala Galaverni. Come le progressive istantanee che fotografano Fortini quale poeta dell’allegoria, della divergenza e dell’azzardo, personalità in bilico tra consapevolezza estrema ed estremo candore. Un capitolo è dedicato al commento della più eloquente poesia sulla poesia, A Boris Pasternak, del 1957. E quanto a folgorazioni definitorie, si passa poi al gioco necrofilo che diventa gioco poetico di Pagnanelli, scrittore della cancellazione, e ai suoi oggetti portatori non di memoria ma di oblio: ed è questo forse il capitolo più sorprendente del libro, perché sorprendente è la poco nota personalità biografica e poetica di Pagnanelli, marchigiano morto suicida poco più che trentenne nel 1987.
E sempre a proposito del coraggioso furore definitorio di Galaverni, ecco la «commedia degli inganni» di Magrelli, poeta dell’illusionismo «barocco»: in Porta Westfalica, del 1992, troviamo un altro soggetto in cerca di un varco tra le parole e le cose. Ecco l’andamento oscillatorio intorno a De Angelis, poeta estremistico, nonché poeta dell’azione mancata, nonché poeta dell’io imperturbabile, «prodigioso mutante impersonale», la cui «solitudine è tanto più vera quanto più recitata» (Fortini scripsit).
Si sarà capito che gli intrecci e i richiami a distanza sono tali e tanti nel saggio-mostro di Galaverni che nessun tentativo recensorio sarebbe in grado di renderne ragione piena. Ma basti qui dire che nel corso delle singole lezioni si aprono dei link interni che illustrano parole, concetti, filoni, confronti possibili. Qualche esempio: sul passaggio da Montale a Sereni impresso nella formula «occasione (metafisica) vs situazione (esistenziale)»; sulla tensione tra poetica e poesia partendo da Pound e risalendo a Dante; sulle generazioni poetiche tra fine anni Settanta e anni Novanta, accomunate dal sentimento della «fine di un’epoca». Ma quel che conta è che usciti da questo viaggio dentro il senso della poesia, i testi attraversati non solo si conoscono meglio ma si amano di più.
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