Giallo - thriller - noir

D’argine al male

Conventi Gaia

Descrizione: Già dato alle stampe nel 2017, D’argine al male è un thriller psicologico ambientato nell’estremo lembo del Delta ferrarese. Questo gotico padano racconta la follia. La morte. La redenzione. Protagonisti della vicenda sono Iolanda e Giovanni ‒ fratelli e nemici ‒, costretti a patteggiare per sopravvivere entrambi. Il teatro di tanti fantasmi è una casa nella golena, a pochi passi dal cimitero. E poi un giorno Iolanda trova una “bambola” e il passato violento torna a tormentarli.

Categoria: Giallo - thriller - noir

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Anno: 2022

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Recensito da Redazione i-LIBRI

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D’argine al male – Prosegue la ripubblicazione dei romanzi di Gaia Conventi ed è la volta di un horror che è in cima alle nostre preferenze, forse per gli echi di Psycho che risuonano in questa lettura.

L’ebook D’argine al male può essere scaricato gratuitamente entro oggi, 2 novembre, a questo link su Amazon, affrettatevi!

A questo link https://www.youtube.com/watch?v=hZezyhzqpjA potete visualizzare lo SPAVENTEVOLE booktrailer dell’opera e qui trovate la nostra intervista a Gaia Conventi, realizzata ai tempi della prima pubblicazione di D’argine al male

Di seguito riproponiamo la nostra recensione illustrata.

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D’argine al male
di Gaia Conventi è una rara combinazione di elementi horror, che attingono alla tradizione classica più nobile e altolocata del genere. Basta scorrere l’indice: ci si imbatte in una sequenza di titoli, icastica e programmatica al tempo stesso.
Il piede: “Il piede rimaneva immobile, chiedendosi perché gli fosse stata levata la vita”.
La sedia: “Avrebbe preso dallo sgabuzzino  la sedia di mamma, quella con le ruote”.
Il sale: “Iolanda ricordava che mamma conservava i cibi col sale da cucina”.
La bambola: “La casa chiuse gli occhi con la bambola, mentre al piano inferiore quattro occhi si fronteggiavano”. E ancora, per rimanere in tema di bambole: “La bambola non aveva più il ragazzo della moto, però aveva una nuova casa e una nuova mamma”.
I topi: “Giurami che non ci sono topi…”.
La signorina: “Era il giorno della signorina e Iolanda doveva fingere di non esistere”.
L’urlo: “Un urlo potente che aveva sollevato la polvere della cantina”.
E poi ancora, in sequenza incalzante: l’impeto, la siepe, la colpa, la tomba, l’attesa.

Dodici capitoli per una storia mozzafiato, che ha due protagonisti: i fratelli Giovanni e Iolanda. Si leggono nel pensiero e vivono in rapporto simbiotico di amore-odio in una casa vicina all’argine sul Po (“Il fiume era una passatoia vellutata tra i vivi del paese e i morti del cimitero”) e in prossimità del… cimitero! (“Aggirarsi tra le lapidi imbiancate non le aveva creato alcun disagio, dalla finestra della sua camera le aveva guardate tante volte…”)

I due consanguinei hanno poche regole, che disciplinano tanto le presenze (“Sei stata tante volte in cantina, la signorina verrà a fare il solito giro, mi chiederà se sto bene e se prendo le medicine”) quanto le assenze (“Quello che si seppellisce sotto la siepe non si tocca più, è la regola”).

Vorrei raccontarvela tutta, questa storia incredibile. Ma non sarebbe onesto nei confronti di chi volesse gustare un horror che si divora in un giorno. E allora mi ritiro in buon ordine e recito il mio ruolo di commentatore che poco rivela, se non lo stupore per questa ennesima prova narrativa di Gaia Conventi.

Vi sono tanti elementi dell’horror classico, dicevo in apertura. Una mamma che ricorda quella dell’Anthony Perkins di Psyco, topi a iosa che riecheggiano i “Ratti nel muro” di Lovecraft, un urlo che sembra dare voce allo Skrik di  Edvard Munch,  miraggi psichici degni del miglior Wulf Dorn per rimanere nei nostri tempi, claustrofobia (“In fondo lei era sempre chiusa in cantina quando la macchina bianca si fermava davanti a casa loro”) e musofobia (o murofobia o muridofobia o surifobia che dir si voglia: lo sapevate che esistono così tanti sinonimi per qualificare una delle fobie più diffuse?), affondi nei traumi infantili (“Anche Giovanni doveva avere un balocco, o avrebbe continuato a sfigurare quelle poverette”) e nelle psicosi dissociative (“Giovanni era fermo in giardino e aveva in testa un fazzoletto da donna”).

Eppure… eppure Gaia ci mette il suo zampino! Nel combinare questi elementi in un intreccio di tensione, ma anche nel pennellare il finale con riflessioni implicite sulla solitudine alla quale spesso l’uomo è condannato e sull’inadeguatezza del nostro apparato socio-sanitario nell’affrontare le malattie dell’anima e della mente. E anche per questo – non soltanto per averci tenuti inchiodati al romanzo con gli occhi sbarrati e magari di notte! – non ci fa rimpiangere l’ironia sferzante e graffiante dei precedenti romanzi.

Bruno Elpis

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