Narrativa

È giusto obbedire alla notte

Nucci Matteo

Descrizione: Ai margini della Roma che tutti conosciamo, dove il Tevere crea un'ampia ansa prima di correre verso il mare, vivono uomini e donne che sembrano essersi incontrati solo grazie alle rispettive necessità. Fra baracche e chiatte, uniti dalla gestione di una trattoria improvvisata, mentre si alternano in piccoli lavori nei campi e nella guida dei turisti cittadini attratti dai loro lavori arcaici, essi hanno formato una specie di strana comunità fuori dal tempo e dal mondo in cui siamo abituati oggi a vivere. Cesare, uno degli ultimi anguillari romani, suo fratello Guido, un bizzarro lettore di testi sacri, Victoria, una cuoca sudamericana e due ragazze dell'est dal mestiere equivoco, hanno accolto già da qualche anno un uomo in fuga. Lo chiamano tutti "il dottore" perché, se il suo nome non ama rivelarlo, sembra venuto a offire le sue cure a chi vive lì e nei dintorni. Zingari, reietti, osti, piccoli criminali, pastori clandestini, tutti chiedono al dottore di essere curati. Tutti del resto hanno intuito che questo cinquantenne vissuto sempre in città è venuto in realtà a curare se stesso. Ma qual è il suo passato? Quale l'immenso dolore che lo ha strappato alla sua casa?

Categoria: Narrativa

Editore: Ponte alle Grazie

Collana: Scrittori

Anno: 2017

ISBN: 9788868336660

Recensito da Daniela Frascati

Le Vostre recensioni

È giusto obbedire alla notte di Matteo Nucci è un grande romanzo, fatto di molte stratificazioni, attraversato dalla dimensione del dolore, della compassione, della miseria umana. Sentimenti universali e quotidiani che riconosciamo in ogni personaggio di questa storia.

La misura del dolore in Nucci, studioso e profondo conoscitore della filosofia e dell’antichità classica, assume la grandezza epica della tragedia anche quando muove i suoi personaggi nella contemporaneità di uomini e donne bruciati dalla miseria e dall’emarginazione. La Roma che racconta in È giusto obbedire alla notte è una Roma che si ferma in un’ansa del Tevere dove non sono arrivati i bastioni e gli argini del rifacimento umbertino della città, una periferia povera, pasoliniana, nella quale vive un brulicame di umanità a suo modo memorabile: Cesare e Giulio, pescatori di anguille, Luis uomo senza radici, Helena la ragazza dell’est europeo, Victoria, la cuoca brasiliana, e tanti altri. Lì in quell’ansa le giornate sono lente, dilatate dallo scorrere del Tevere nella dimensione di un tempo quasi mitologico.

Il filo conduttore della storia e di queste vite è il Dottore, personaggio senza nome e senza identità per gran parte del romanzo, approdato chissà da dove e perché, in questo territorio di periferie estreme, fatte di catapecchie nascoste da una vegetazione antica e caotica, eppure tanto prossime alla Roma che conosciamo.

Su quella riva del Tevere, sul crinale che separa il benessere di una società opulenta dalla tribolazione di chi sopravvive degli avanzi di questo benessere, vivono quelli che scansiamo e consideriamo poco più che scorie. Personaggi sporchi, forse brutti ma mai cattivi poiché l’arrivo del Dottore ha liberato in questa miseria il sentimento della solidarietà e della compassione. Un’umanità sul bordo del precipizio che non spinge giù l’altro per salvarsi ma lo trattiene e lo stringe per condividerne lo spazio angusto della salvezza. Sono loro, le loro vite e il loro patire, i protagonisti di un romanzo bellissimo e carico di pathos, assieme a una Roma attraversata dalle memorie del Dottore, una città contigua eppure lontana in tutta la sua bellezza levantina e opulenta tra monnezza e degrado.

“Camminò tra cartacce, cestini traboccanti immondizia, vetture parcheggiate, ambulanze dismesse e camioncini di servizi vari, dal plasma al rifornimento di vivande”.

Osservò gli steli bruciati di erba diradata che si moltiplicavano nelle aiuole terrose… Un refolo d’aria sembrava infilarsi giù dal Pincetto. Corvi neri ballonzolanti e guardinghi piluccavano molliche, insetti e vermiciattoli tra i viali. Si sentivano soltanto ronzii e fruscii, oltre ai gorgoglii dei rubinetti aperti di continuo nelle fontane segnate da cartelli di acqua non potabile…

Il Dottore lega le storie dei molti protagonisti e allo stesso tempo si lega a loro con pietà e umiltà. È qualcuno di cui quella comunità di perdenti avverte la diversità, ma anche la statura morale. Ed è uno di loro perché lui stesso è un perdente, ma consapevole che quanto ha perso non può essere emendato dalla fuga dal se stesso che è stato. Solo nel capitolo intitolato La Fuga, quando un vecchio amico lo ritrova, capiremo il perché della sua scelta, ne conosceremo il nome, Ippolito, la sua professione di archeologo, e ciò da cui è fuggito: una condizione normale, borghese che ha perso ogni senso di fronte al baratro nel quale tutto è precipitato dopo la perdita della figlia, la piccola Teresa.

“Che cos’è la controra, piccola mia? È l’ora silente in cui tutto può accadere. È l’ora più bella per chi va cercando il mare. Vieni con me al mare? Scendiamo giù al mare? È l’ora in cui tutti riposano e noi andiamo a cercare tesori. Vieni con me a cercare tesori? Scenderemo lungo il fiume.”

Il luogo dove ha cercato rifugio non è dunque casuale; è lì che l’aveva portata, a mangiare nella trattoria l’Anaconda, un capanno sul bordo della riva del Tevere. Quel giorno, la piccola era stata bene, malgrado il male che se la stava portando via, e si era divertita a guardare le nutrie e gli altri animali dell’acqua e la vegetazione spontanea e confusa delle sponde.

E Ippolito, il Dottore che porta conforto a tutti, ha trovato conforto anche al suo dolore perché È giusto obbedire alla notte. Al dolore non si volta le spalle, non si rigetta come un corpo estraneo, si impasta con il proprio corpo per farne misura della propria umanità, della capacità di accogliere e condividere le miserie degli altri, come fossero le nostre, abbandonandosi al fluire del tempo tra ombre e luce.

Mettiamo fine ormai alla battaglia e alla lotta per oggi; poi combatteremo ancora, finché un dio ci divida e conceda agli uni o agli altri vittoria; ormai scende la notte; è giusto obbedire alla notte”. (canto VII dell’Iliade)

È giusto obbedire alla notte è una narrazione dolorosa e potente, raccontata con una lingua che lava la sua purezza nel dialetto e negli idiomi ibridi di questa umanità di apolidi e la sublima in una prosa intensa che contiene tutta la potenzialità della lingua italiana. Una scrittura che emoziona e coinvolge. Un grande romanzo che ci porta non solo ai confini di una città, ma ai confini dell’anima.

Daniela Frascati

La finale del Premio Strega 2017

...

Leggi tutto

LEGGI COMMENTI ( Nessun commento )

Aggiungi un tuo commento

Scrivi la tua recensione

Devi effettuare il login per aggiungere un commento oppure registrati

Matteo

Nucci

Libri dallo stesso autore

Intervista a Nucci Matteo

Al largo di Fjällbacka, nella nassa di un pescatore a caccia di aragoste rimane impigliato il corpo senza vita di una bambina. Nei suoi polmoni ci sono tracce d'acqua dolce e sapone: qualcuno l'ha annegata in una vasca da bagno prima di gettarla in mare. Mentre Erica, mamma da poche settimane, è completamente assorbita da una neonata che tutto le offre fuorché le "gioie deliranti della maternità" che si aspettava, Patrik guida le indagini. Ma chi può aver voluto la morte della piccola Sara? Il paese è alla ricerca di un capro espiatorio, la gente bisbiglia, i conflitti nutriti negli anni si fanno più aspri: dentro le case dalle facciate perfette affiorano drammi famigliari che il tempo non ha saputo placare. Al terzo romanzo della sua serie pubblicata in trentadue paesi, Camilla Làckberg, con occhio attento agli esseri umani e alla loro psicologia, intreccia le colpe del passato agli effetti devastanti sul presente, tracciando il ritratto lacerante di una psiche femminile sfrenata, affascinante, e mostruosa.

LO SCALPELLINO

Läckberg Camilla

Non ci pensa due volte la terribile, dispotica signora Pontreau a spingere giù dalla finestrella del granaio il genero immobilizzato da una crisi di epilessia. La morte di quel buono a nulla, di quella «marionetta» dalle gambe molli, le permetterà di annettersi la sua proprietà e soprattutto di riprendere il controllo sulle tre figlie. Ma c’è un’altra donna, altrettanto terribile, una vecchia domestica rancorosa, che ha dei sospetti e che potrebbe parlare, o ricattarla. Il prezzo da pagare perché tutto venga soffocato, perché una greve cappa di silenzio scenda sulle vittime e i colpevoli, e perché ogni cosa – il paese come la grande casa dalle finestre sprangate – ripiombi in una calma sinistra, sarà altissimo.

Il grande male

Simenon Georges

James Purdy e la sua scrittura rimangono un rebus oggi come ieri. Amato da autori che non potrebbero essere più diversi - tra gli altri Jonathan Franzen, Gore Vidal e David Means che firma l'introduzione a questo libro -, non ha mai incontrato il favore del grande pubblico né lo ha mai ricercato. Forse proprio perché non l'abbiamo capito meriterebbe ancora un'altra chance per confonderci e sviarci, per mostrarci come la letteratura possa ancora essere un oggetto misterioso che prescinde da regole di scrittura fissate come fossero le tavole del tempio. La prosa di Purdy potrebbe suonare anacronistica, con le sue didascalie, il suo marchiano "tell don't show", questi personaggi che fulminano a bruciapelo gli interlocutori con domande sul senso delle cose, stridenti nella loro chiarezza e crudeli nel loro essere stralunate. I neon di un cinema notturno piuttosto equivoco squillano "uomini uomini uomini", e nella sala buia qualche marchettaro è intento a conoscere col tatto corpi e fremiti propri e altrui. Così come gli Holden efebici che perlustrano gli anfratti più bui di un parco sordido varcano quel territorio di confine che è l'omosessualità, allo stesso modo la lingua di Purdy sta e si misura fra ciò che dice e ciò che esclude dall'esser detto, ciò che rimane fuori ma soprattutto sotto l'abito di parole confezionato da questo formalissimo sarto letterario. Sotto una spessa patina di urbanità e manierismi, pulsa una voragine di desiderio e gli interpreti azzimati e ossequiosi di queste turpitudini mai esibite, ma solo ruminate e vissute, hanno un'onomastica e una "quirkin"...

Non chiamarmi col mio nome

Purdy James

4 marzo 1861: parte da Palermo il battello a vapore “Ercole”, con a bordo Ippolito Nievo, in viaggio verso Napoli per riportare i documenti della spedizione garibaldina dei Mille cui aveva preso parte. Ma la nave “Ercole” nel corso di una violenta tempesta scompare nel nulla. Nessun superstite, nessuna traccia, nessuna inchiesta che riesca a capire cosa è accaduto. 5 marzo 1961: in occasione del centenario della scomparsa di Ippolito Nievo, Stanisalo, suo pronipote, viene abbagliato da un flash, che interpreta come un invito a riaprire le indagini su quella morte misteriosa. Stanislao Nievo dedica dieci anni della sua vita a raccogliere i materiali utili per ricostruire le fila di questo capitolo di storia patria. Così la vicenda di Nievo si sdoppia e si aggroviglia in tante storie diverse, e le ricerche non sono meno avventurose e romanzesche della fine leggendaria del vascello “Ercole”. Pubblicato nel 1974, il romanzo è il Premio Campiello 1975.

Il prato in fondo al mare

Nievo Stanislao