Fascisti della parola di Vittorio Feltri, Rizzoli 2023
Il politicamente corretto applicato al linguaggio secondo Feltri è il male del secolo, ed è giunto il momento di dire basta, di tornare a parlare come mangiamo.
Con le parole si può giocare, ma non si scherza. Sono roba seria. Infatti, uno dei primi segni di un potere totalitario e liberticida è proprio il controllo del linguaggio. L’imposizione della censura di alcuni termini non è pratica che riguarda il passato, anzi, è più attuale che mai. Più andiamo avanti e più regrediamo in questo ambito. Più diventiamo moralistici, smarrendo tuttavia morale ed etica, più ci concentriamo sull’uso di determinati vocaboli, facendone una malattia. Così si è data vita alla battaglia più stupida, vana, insulsa e folle della nostra storia: quella al dizionario. Oggi non si può più dire “negro” al negro né si può più dire “zingaro”, “rom” o “nomade”. Non si può dire che uno è “cieco”, semmai è un “non vedente”. Non si può dire “sordo”, al massimo “audioleso”. Non si può dire “spazzino”, ma solo “operatore ecologico”. Non si può dire “bidella”, ma solamente “operatrice scolastica”. Non si può dare del terrone al terrone mentre è corretto dare del polentone a un polentone. E guai a dire “frocio” o “finocchio”, a meno che tu stesso non sia omosessuale, in tal caso diventa lecito. Per non parlare della repulsione diffusa nei confronti dei sostantivi maschili. Se aggiungi l’astina alla vocale “o”, se declini tutto al femminile, allora sei una bella persona, altrimenti vieni etichettato quale maschilista tossico e pure farabutto.
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«La provocazione è il mio mestiere, mi piace far casino». Il giornalismo deve mettere scompiglio, altrimenti meglio leggere soltanto i necrologi o la lista della spesa. Bisogna partire da questa confessione conclusiva per capire lo spirito del nuovo libro di Vittorio Feltri, Fascisti della parola, che ha per sottotitolo Da negro a vecchio, da frocio a zingaro, tutte le parole che il politically correct ci ha tolto di bocca (Rizzoli). Allora allacciamo le cinture e cominciamo la navigazione in un testo che è insieme un elogio della libertà di espressione, un attacco all’ipocrisia di chi con la censura del dizionario si illude di aver risolto i problemi che ci assillano, e una difesa della destra al governo, che proprio su questioni lessicali ha suscitato tanti attacchi da parte della sinistra.
Uno dei fenomeni presi di mira è la «genderizzazione» del linguaggio, l’abolizione del maschile che fino a pochi anni fa era usato ed era generalmente accettato come neutro. Oggi per indicare un legale donna non si può dire avvocato (e nemmeno avvocatessa), ma si usa il termine avvocata, termine che quelli della generazione di Feltri, ottantenne che esibisce con orgoglio la sua età, veniva usato al massimo nelle preghiere alla Madonna, «avvocata nostra». È così per medico/a, deputato/a e via dicendo. Mi accorgo di aver usato le astine politicamente corrette tanto detestate dall’autore.
I casi che hanno fatto più discutere in quest’ultimo periodo sono stati quelli di Giorgia Meloni, che si è definita «presidente del Consiglio», lasciando naturalmente agli altri la libertà di definirla come credono, e della direttrice d’orchestra Beatrice Venezi, che ama essere chiamata direttore. Apriti cielo: pagine di giornali, comunicati sindacali, decine di talk show dedicati a un particolare lessicale che dovrebbe essere di secondaria importanza rispetto alla valutazione politica e professionale. Tacendo il dato storico fondamentale: che Giorgia Meloni, piaccia o meno, è la prima (o il primo) presidente del Consiglio donna della Repubblica italiana.
Ancora più spinoso il problema delle famiglie arcobaleno e la decisione presa a un certo punto di sostituire sulla carta d’identità padre e madre con «genitore 1» e «genitore 2». Nei momenti più duri, ironizza Feltri, non invocheremo i genitori uno e due, ma diremo «mamma mia».
Restando in ambito sessuale, l’autore confessa di avere la tessera dell’Arcigay e ricorda la sua profonda amicizia con il grande critico musicale Paolo Isotta, scomparso nel 2021, e con artisti che non hanno mai nascosto la loro omosessualità. Anzi spesso l’hanno esibita. Come il napoletano Isotta che una volta dichiarò: «Io non sono gay, so’ ricchione». Così per Feltri certi termini denotano soltanto la ricchezza del nostro lessico. Abolirli significherebbe sterilizzare la lingua.
Tutto si può dire, secondo il giornalista bergamasco, dipende dall’accezione con cui si usano le parole. Per esempio il termine «terrone» ha perso il significato offensivo e di disprezzo verso i meridionali, ma sarebbe un termine scherzoso per indicare gli abitanti del Sud, così come per quelli del Nord si usa la parola «polentone». Lungi dal colmare il divario soprattutto economico esistente tra il Nord e il Sud dell’Italia l’abolizione di certe parole serve a nascondere i problemi e toglie lucidità nel valutare quelli emergenti, per esempio la questione dei migranti. Ma anche su questo tema Feltri va controcorrente rispetto al politicamente corretto, o meglio segue la corrente della destra ribellandosi alla sinistra che, a suo dire, vuole imbrigliare, addomesticare, il vocabolario. Quindi al netto delle sanzioni comminate dall’Ordine dei giornalisti ai professionisti dell’informazione che usano il termine «clandestino» violando le direttive della «Carta di Roma», Feltri è per la totale libertà di parola, perché nessuna coperta lessicale può nascondere il fatto che non tutti i migranti che giungono sulle nostre coste sono profughi dalle guerre. E che l’immigrazione senza controlli non è il metodo migliore per risolvere il nostro drammatico calo demografico.
L’autore ritiene legittima anche la controversa espressione usata da Francesco Lollobrigida, ministro dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare, «sostituzione etnica», ritenuta invece espressione «disgustosa» dalla segretaria del Pd Elly Schlein, anche per il retaggio del passato fascista.
Giunti a questo punto è chiaro che il saggio di Feltri è per metà critica di costume, per esempio nelle gustose pagine sui diversamente giovani (la vecchiaia è uno dei termini messi al bando dall’ipocrisia linguistica), e per metà pamphlet politico. In particolare nei capitoli in difesa della patria, della sovranità nazionale, della meritocrazia (si dimentica che il merito è uno dei valori difesi dalla nostra Costituzione). Insomma, un libro attuale e da leggere, anche se non si è sempre d’accordo.
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