Narrativa

Grande meraviglia

Ardone Viola

Descrizione: «L'amore è incomprensibile, una forma di pazzia».

Categoria: Narrativa

Editore: Einaudi

Collana: Einaudi Stile libero big

Anno: 2023

ISBN: 9788806257620

Recensito da Redazione i-LIBRI

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Grande meraviglia di Viola ArdoneEinaudi, 2023

«L’amore è incomprensibile, una forma di pazzia».

Nel candore dello sguardo di Elba il manicomio diventa un luogo buffo e terribile, come la vita, che Viola Ardone sa narrare nella sua ferocia e bellezza.

Dopo il successo internazionale de Il treno dei bambini e di Oliva DenaroGrande meraviglia completa un’ideale trilogia del Novecento. In questo magnifico romanzo di formazione, il legame di una ragazzina con l’uomo che decide di liberarla rivela il bisogno tutto umano di essere riconosciuti dall’altro, per sentire di esistere.

Elba ha il nome di un fiume del Nord: è stata sua madre a sceglierlo. Prima vivevano insieme, in un posto che lei chiama il mezzomondo e che in realtà è un manicomio. Poi la madre è scomparsa e a lei non è rimasto che crescere, compilando il suo Diario dei malanni di mente, e raccontando alle nuove arrivate in reparto dei medici Colavolpe e Lampadina, dell’infermiera Gillette e di Nana la cana. Del suo universo, insomma, il solo che conosce. Almeno finché un giovane psichiatra, Fausto Meraviglia, non si ficca in testa di tirarla fuori dal manicomio, anzi di eliminarli proprio, i manicomi; del resto, è quel che prevede la legge Basaglia, approvata pochi anni prima. Il dottor Meraviglia porta Elba ad abitare in casa sua, come una figlia: l’unica che ha scelto, e grazie alla quale lui, che mai è stato un buon padre, impara il peso e la forza della paternità. Con la sua scrittura intensa, originale, piena di musica, Viola Ardone racconta che l’amore degli altri non dipende mai solo da noi. È questo il suo mistero, ma anche il suo prodigio.

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Leggi in forma integrale l’intervista all’autrice a questo link

Il libro di Viola Ardone Grande Meraviglia è davvero importante. Prende un tema difficile, di facile e tranquillizzante rimozione, quello del disagio psichico, e ci riporta indietro nel tempo, quando la legge Basaglia che chiuse i manicomi indicando percorsi alternativi di cura e reinserimento era stata da poco approvata ma gli istituti che praticavano gli elettrochoc, la contenzione, le punizioni corporali erano ancora attivi.
In un manicomio del Sud cresce una bambina. Sana, come sua madre. Si chiama Elba e appunta ogni cosa che vede su un Diario dei malati di mente. Chiama il manicomio il «mezzomondo» e chi vive all’esterno i «micamatti».
Il suo destino sarà segnato dall’incontro con l’altro personaggio centrale del racconto, il professor Fausto Meraviglia, giovane ed entusiasta seguace delle dottrine di Basaglia che entrerà in aspro conflitto con il direttore Colavolpe, fermo al passato.
I romanzi non si raccontano, si leggono. E questo vale proprio la pena di conoscerlo. È una scrittura che ha due ritmi, a seconda della voce di chi racconta, ma una uguale capacità di portarti dentro quell’inferno e di farti provare forti emozioni.
A Viola Ardone ho chiesto di ragionare insieme su alcune frasi del suo romanzo.

«Lo sai la tristezza cos’è?» si dice a pagina dodici.
«Elba è una ragazza che prova a dare un nome alle cose, perché ha sempre vissuto solo nel manicomio. Perciò si sforza di nominare anche i malesseri. Cerca di crearsi un suo vocabolario e appunta ogni cosa che vede, ogni pensiero che le viene dall’esperienza vissuta, su un quaderno. In qualche modo anche lei diventa una dottoressa, che confronta le sue diagnosi con quelle di Colavolpe, l’arcigno gestore dai metodi autoritari del “mezzomondo” nel quale è rinchiusa. Lei vive il dolore suo e degli altri e quindi capisce meglio, di più. E fornisce questa definizione della tristezza come una forza che ti attira, ti accompagna in un gorgo. Una forza quasi dolce, una malinconia che diventa cronica. Ti avvolge, ti porta con sé e poi è difficile che ti faccia uscire. Elba ha visto le persone lì dentro precipitare in quel vuoto, che è un vuoto interiore, e non riemergere più».

E per te cosa è la tristezza?
«È qualcosa con cui cerco di convivere. Cerco di mascherare con l’umorismo le mie tristezze. Sono una persona malinconica e probabilmente ho scritto questo libro anche per curare la mia tristezza, per la paura che potesse prendere il sopravvento. La tristezza è consapevole, la malinconia è più dolce, è uno stato d’animo. Credo che la malinconia, che certe forme di depressione siano contigue al nostro vissuto, non alberghino da un’altra parte. Io non voglio sfuggire alla tristezza, voglio imparare a conviverci».

Napoletana, classe 1974, Viola Ardone insegna italiano e latino in un liceo

«I micamatti odiano i matti», pagina tredici.
«Perché ne hanno paura e ciò che è più facile fare, di fronte alla paura, è relegare ciò che mette a disagio in luoghi sbarrati dove le diversità non siano visibili, non ci incontrino. Chiudere nei centri di detenzione, nelle carceri, a Lampedusa. Rimuoverli dal mondo, perché il mondo dei “micamatti” è composto solo da quello che loro vedono, non da quello che esiste. Ciò che è recluso non si vede, come polvere sotto il tappeto. Elba definisce il manicomio un “mezzomondo” perché non può vedere ciò che esiste fuori. Ma anche l’altro, in fondo, è a sua volta un “mezzomondo” perché non vede, non vuole vedere, quello che c’è dentro…. Chi non è mai stato in un ghetto, in un carcere vive in un “mezzomondo”».

«I ricchi non sono mai pazzi», pagina tredici.
«C’è una tale differenza sociale nell’accesso alle cure… E se esiste per ciò che riguarda il corpo, il gap diventa insostenibile per ciò che attiene alla mente, al disagio psicologico. Per chi non ha soldi è quasi impossibile accedere alle cure. Non è giusto che chi è ricco sia considerato esaurito e chi è povero sia un pazzo. Chi trova il giusto terapeuta ce la può fare, chi è solo con il suo disagio no. Forse il malessere psichico è l’area in cui più si avverte la divisione classista della società».

«Ho tutta questa carta da lettere e nessuno a cui spedirne. Vogliono le email, anzi, nemmeno più quelle» pagina centotrè. Esiste un disagio psicologico dell’età digitale?
«La catastrofe è iniziata con il Covid. È stato fatto credere ai ragazzi che è possibile vivere la socialità attraverso lo schermo di uno smartphone o di un computer. Una fetta cospicua dei fondi del Pnrr è destinata alla digitalizzazione della scuola. Ma come: noi abbiamo edifici che cadono a pezzi, senza palestre, senza laboratori, talvolta senza riscaldamenti e si decide di investire sulle aule immersive, sull’ologramma del professore? Il resto d’Europa va verso il detox digitale. Francia, Svezia si muovono risolutamente in questa direzione. Le forme di dipendenza digitale sono ormai gravissime, come gli effetti che il bullismo digitale ha su vite in formazione».

Ma il digitale è, in realtà, una struttura chiusa, una nuova istituzione totale?
«Sì, con l’aggravante che la scegliamo noi, liberamente. Orwell, nel parlare della società del 1984, non aveva vaticinato che sarebbe stata una prigione autoedificata. Siamo stati molto attenti a schivare le imposizioni palesi ma non abbiamo capito che intanto venivamo manipolati, venivano indotti desideri, linguaggi, universi che si stringevano addosso a noi, con la maschera della più grande libertà di ogni tempo».

Esiste davvero quella che Elba chiama a pagina sedici «l’etichetta sopra il dolore»?
«Non è possibile mettere il dolore sotto chiave. Elba dice a un certo punto che conoscere il dolore, riconoscerlo, è già guarire. È la terapia delle parole, il dare un nome al disagio. Tu sai di avere un labirinto dentro, almeno ti doti delle frecce che ti indicano la strada e ti orienti nel dolore. Il problema delle famiglie è non voler sapere. Si ha paura, ancora oggi, perché un disagio psicologico è vissuto, a causa dell’eterno stigma sociale, come sminuente del prestigio della famiglia stessa».

«Piante con le radici in vista», pagina quarantanove. È questa la condizione umana nel manicomio?
«È il concetto dell’essere senza pelle. Il manifestare la propria fragilità, le proprie innascondibili ferite. Loro sono nudi, con le ferite a vista. C’è quello che parla sempre, quello che si fa del male, quello che grida parole sconosciute. Ma non è che fuori, nell’altro mezzomondo, tutto questo non esista. È solo tutto nascosto, “accappottato”».

Uno dei tuoi personaggi chiede sempre «ce la faccio?».
«Nel corso di una presentazione, in Emilia, le libraie mi hanno raccontato di un loro cliente che entrava e usciva dal centro di igiene mentale. Era perfettamente inserito. Il suo mondo non era a metà, in fondo quell’uomo era l’incarnazione del sogno di Franco Basaglia. Comprava tanti libri, anche tomi voluminosi, e per qualsiasi cosa facesse chiedeva, instancabilmente, “ce la faccio?”. È la domanda che interiormente ci rivogliamo ogni giorno. Ma lui la portava fuori, la dichiarava. Ma nella vita non è importante farcela, è importante provare a farcela».

«La rabbia ti avvelena i pensieri», pagina 104. Oggi la rabbia che sapore ha?
«Spesso viene instillata, è materia per mercato politico, comunicativo. Sembra che tutto indichi la rabbia come sentimento unico e la solitudine come unica condizione per esprimerla. È il lamento inviperito di un tweet, l’odio per le differenze, il fastidio per la complessità. La rabbia è sempre esistita, per fortuna. Ha mosso il mondo. Ma la risposta un tempo era collettiva, ci si sforzava di trasformare la rabbia in energia. Ora è un grido solitario, spesso rivolto contro i propri simili, più che contro il potere. Conflittualità sociale, agitata su un piano orizzontale piuttosto che verso l’alto, verso l’autorità».

«La madre fatta internare dal marito perché adultera», pagina centosessantasei. Parliamo del 1982 o di oggi?
«Per fortuna parliamo di allora, almeno dal punto di vista delle leggi. Il diritto di famiglia, il divorzio, l’aborto, sono state conquiste fantastiche. Mai più abbiamo vissuto degli anni così capaci di accelerazioni e di acquisizioni di libertà individuali e collettive. Viviamo ora una risacca spaventosa in tutti questi campi, c’è bisogno di una manutenzione di queste libertà».

Ti sembra che oggi subiamo nuove forme di sequestro?
«Sì, il tempo. È quello, che ci viene sequestrato. Non ne siamo più padroni. Siamo sempre distratti dai social, dai reel che scorrono uno dopo l’altro. È un sequestro di tempo. Quei minuti, quelle ore che si dedicavano alle relazioni umane, alla fantasia, alla socialità, alla lettura, alla condivisione. Mio padre, che ha 79 anni, una volta a settimana va in ospedale per fare il volontario. Per lui il tempo è anche quello, è lo strumento per dedicarsi agli altri».

«Per andare avanti bisogna ricordare», pagina centosettanta. Viviamo invece immersi nel presentismo?
«È un orizzonte oggi molto appiattito, che contiene il rischio del revisionismo del passato. Perché se io schiaccio tutto sul presente, rimuovo il futuro, inevitabilmente anche il passato si scolora, e tutto sembra uguale. Piatto il passato, nero il futuro… Il presente diventa solo ansia…».

Perché hai scelto di ambientare la tua storia nel periodo di transizione tra l’approvazione della legge Basaglia e la sua attuazione?
«È stato un processo molto lungo: la legge fu approvata nel 1978, era una normativa rivoluzionaria, anche in Europa. La chiusura dell’ultimo manicomio è però del 1999. Perché? Perché non sapevano cosa fare delle persone che uscivano. Ho voluto immaginare la fase di transizione. Cosa è successo a queste persone quando gli hanno detto “siete libere, potete tornare nella società”? Anche la libertà può essere difficile. Come mi rimetto nel mondo dopo che me lo hanno sottratto per un tempo lungo? Nel libro racconto questo passaggio. E poi volevo rendere giustizia a quella legge e al suo inventore. Perché quei principi ora sono di nuovo in discussione. Non ci sono i dipartimenti di salute mentale su tutto il territorio e le strutture stanno tornando ad essere luoghi di sottrazione delle persone alla comunità. Sta avvenendo per gli anziani, i disabili, per i bambini con problemi seri. L’idea di Basaglia, un percorso di cura e di reinserimento, sta diventando di nuovo un’utopia. Non si vogliono, nella logica capitalistica della salute, investire soldi su chi viene considerato solo un problema da rimuovere, una persona tarata. Stiamo tornando a prima di Basaglia, purtroppo. E si stanno lasciando sole le famiglie».

«Abbiamo lasciato solo cocci» dice Fausto Meraviglia a pagina duecentocinquanta. È così?
«Lui lo dice. Ma al mondo ha invece lasciato dei figli che sono migliori di lui. Come ogni generazione è meglio della precedente. Lui li ha spesso ritenuti meno importanti del suo lavoro, li chiama “fiori di plastica” per dire che sono senz’anima. Invece sono pragmatici, concreti. Sono le anime migliori del libro. Sono la speranza, il futuro possibile».

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