Il vento soffia dove vuole di Susanna Tamaro, Solferino, 2023 – disponibile dal 6 ottobre 2023
Ci sono momenti nella vita in cui si sente il bisogno di prendersi una pausa e ripercorrere con calma, senza le continue incombenze quotidiane, le tappe della nostra esistenza. Un viaggio che, anche nei momenti difficili e bui, ci ha portato a provare un sentimento di riconoscenza e gratitudine verso chi ha condiviso con noi il cammino, le prove, le epifanie. Così Chiara, alla soglia dei sessant’anni, approfittando dell’improvviso silenzio che avvolge la sua casa in collina, decide di scrivere tre lettere. La prima alla luminosa figlia adottiva, Alisha, ormai ventenne; la seconda alla diciottenne Ginevra, la problematica figlia naturale; e la terza all’amato e solido marito Davide, con il segreto intento che un giorno la farà leggere anche al piccolo Elia, arrivato in un momento di grande crisi familiare. Sono tutte, in qualche modo, lettere d’amore, declinate nei diversi linguaggi in cui si esprime questo sentimento invincibile e misterioso che ci lega indissolubilmente gli uni agli altri, aprendo nel nostro cuore porte segrete che non sapevamo di avere. Trent’anni dopo Va’ dove ti porta il cuore, Susanna Tamaro ci riporta all’interno di complesse dinamiche generazionali, regalandoci pagine preziose che sovrastano il vociare confuso di questi tempi. Il vento soffia dove vuole ci cattura, ci consola e ci guarisce.
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Annunciato come il nuovo Va’ dove ti porta il cuore, il romanzo di Susanna Tamaro, Il vento soffia dove vuole, in uscita il 6 ottobre per Solferino, si iscrive in un percorso coerente ma nello stesso tempo molto complesso che la scrittrice, triestina di nascita, ha compiuto in questi trent’anni di militanza letteraria. La forma epistolare, nel 1994 la lettera scritta da una nonna alla nipote, oggi da una madre e moglie giunta alla soglia di una compiuta maturità alle figlie e al marito, favorisce il gioco dei rimandi. Così come la doppia lettura cui si prestano tutti i romanzi di Tamaro: da un lato una trama semplice scritta con stile trasparente che attrae proprio in virtù dell’essenzialità, dall’altro il difficile percorso che comporta una ricerca spirituale che diventa sempre più evidente con l’avanzare del racconto. A questi due elementi l’autrice ha aggiunto in questo suo nuovo libro la critica ai tanti aspetti di una società secolarizzata, materialista fino al limite della cecità, di cui ha continuato a dare testimonianza negli articoli scritti prima per «Avvenire» e oggi per il «Corriere della Sera». Un punto di vista anticonformista che prende di mira la burocrazia, il disprezzo per la natura, i programmi di una scuola pubblica inadeguati a un compiuto percorso formativo, la superficialità dei rapporti in un mondo tutto centrato sull’iperconnessione, infine la mancanza del sacro, che ci rende tutti più poveri.
Sono sei anni che Chiara con la sua famiglia vive in una casa delle colline parmensi. La scelta di quest’abitazione corrisponde alla nuova e tranquilla fase della vita cominciata dopo un grosso trauma. Per la prima volta Chiara e i suoi hanno deciso che dopo aver festeggiato il Natale assieme ognuno trascorrerà le vacanze come meglio crede. La figlia maggiore, Alisha, che è stata adottata, andrà in viaggio con il fidanzato, la secondogenita Ginevra a Cortina con le amiche, il piccolo Elia, ultimo arrivato, sarà ospite di un amichetto e Davide, un medico, con i suoi vecchi sodali, partirà per un’escursione in alta montagna. Chiara, alla soglia dei sessant’anni, ha deciso di rimanere a casa. Avverte il passare del tempo e sente giunto il momento di fare i conti con sé stessa scrivendo tre lunghe lettere, ad Alisha, a Ginevra e a Davide. Un po’ il suo testamento spirituale.
Alisha, che significa benedetta da Dio, è una bambina indiana abbandonata dalla madre. Chiara con Davide, dopo una estenuante trafila burocratica durata cinque anni, andrà a prenderla in un orfanotrofio di Calcutta. A lei, con un carattere solare che rispecchia il nome, la nuova mamma vuole spiegare i motivi dell’adozione. Lo fa partendo dal trauma di un aborto cui si è sottoposta l’ultimo anno di liceo dopo una storia finita male con un brillante leader studentesco. Una fiamma di gioventù che l’ha bruciata e che l’ha spinta a chiudersi in sé stessa, in una solitudine confortata soltanto dagli studi totalizzanti per la biologia. Fino all’incontro con il futuro marito Davide: lei impiegata in una casa farmaceutica, lui pediatra in ospedale. La coppia non riesce ad avere figli e allora decide per l’adozione. Chiara confida ad Alisha che lei come tante era stata spinta a «rimuovere il problema» (della gravidanza), cosa che non aveva fatto la madre naturale della bambina abbandonata e proprio per questo da non giudicare con severità.
Ciascuna delle tre parti in cui è diviso il romanzo ha delle pagine sapienziali. Ad Alisha Chiara parla del termine sanscrito Samdhya, che descrive l’incontro degli opposti, il momento in cui il buio della notte incontra la luce del giorno: in qualche modo è la stessa condizione umana spesso sospesa nell’ambiguità della penombra, base di partenza per un cammino originale. In questo ci aiuta lo Shivasankalpa, l’elargizione della grazia che ci viene in soccorso quando ci troviamo davanti al muro delle sfide più ardue.
Quando Chiara ha compiutamente maturato la scelta dell’adozione, rimane incinta di Ginevra, che ha un nome da regina ed è l’opposto di Alisha. Quanto questa accetta tutto come un dono, la sorella ritiene che ogni cosa le sia dovuta. Più che alla madre, si lega ai nonni materni, altoborghesi piuttosto aridi, che non hanno costituito un modello per Chiara, che fece in modo di farsi cacciare dal collegio di Poggio Imperiale a Firenze, rifiutò di iscriversi a Legge per ereditare lo studio del padre, sposò un medico, sì, ma proveniente da un contesto umile. Ginevra invece adora i ritratti di famiglia, che descrivono ormai una grandeur decaduta, è attratta dai valori materiali, è sempre attaccata al telefonino. L’opposto della madre, che però le scrive: forse siamo simili proprio per l’arte di nasconderci e il rifiuto delle origini. Ognuno deve essere libero di compiere il suo percorso.
C’è infine la lettera a Davide, il marito pediatra definito «l’uomo lego», l’uomo che costruisce: benché non sia cresciuto come la moglie in una casa con librerie piene di classici, ma in una semplice famiglia di un paese molisano, ha una statura morale e un bagaglio di valori spirituali che trasmette alla moglie. È lui ad avvicinarla alla religione, imponendo un matrimonio in chiesa reso possibile da una dispensa vescovile, perché la futura sposa non è stata battezzata. Lo sarà assieme all’ultimogenito Elia, cui viene dato il nome del profeta che sa distinguere il bene dal male. A celebrare il doppio battesimo è Gianfranco, il cugino di Davide, che dopo una gioventù scapestrata divenne frate benedettino grazie agli insegnamenti di Charles de Foucauld, il religioso francese missionario nella terra dei Tuareg. Dio ama i ribelli, diceva il visconte diventato missionario. Per conquistare la fede non occorrono atti di conformismo ma piuttosto atti di ribellione e percorsi originali. Come quello compiuto da Hildegard von Bingen, la bambina del XII secolo entrata in un monastero che ha scritto pagine indelebili di botanica, medicina, astronomia, medicina, musica. Lei nata nei secoli bui, in un mondo che soffocava le donne. È la possibilità di costruire un proprio destino originale il vero messaggio di questo libro, perché «il vento soffia dove vuole».
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