Albert Camus, La caduta
“Felice di fare la sua conoscenza. Lei è in commercio? Più o meno? Ottima risposta! Giudiziosa, anche; qualunque cosa siamo, la siamo sempre più o meno.”
Più o meno, eterno limbo dell’essenza e dell’esistenza. Una maschera, pirandellianamente, indossata e tenuta stretta, schiacciata fra denti e naso fino a farla fondere in sé. È fatto divieto, severamente ma serenamente, di spostarla, scrutare, ricercare, capire, spogliarsi definitivamente di fronte alla società, di fronte allo specchio. Ma ancor più di fronte a sé stessi. Pena? La caduta. A mostrare a nervi scoperti la terribile anatomia di questo percorso irreversibile è Jean-Baptiste Clamence, protagonista del romanzo dello scrittore francese Albert Camus dal chiaro titolo evocativo, La caduta, edito da Bompiani in traduzione di Sergio Morando. Jean-Baptiste è un brillantissimo avvocato parigino con un’esistenza borghese che rasenta la perfezione, ma senza meriti. Lui stesso lo dice, “la mia storia non è affatto straordinaria”. Il successo e la fama caratterizzano la sua vita professionale, e anche privata. È di una gentilezza commovente, seppur di commovente non ci sia nulla, solo gli riesce bene e ne prova piacere. Le sue arringhe un vero godimento, la sua curiosità di una purezza allietante, la sua percezione è oggettiva, né più né meno. Naturalmente superiore a chiunque, abile negli sport e nelle belle arti, di salute forte e longeva, benestante, amatore seriale e ossessivo, insomma, “il mio accordo con la vita era totale”. Una sera però, passeggiando su di un ponte che attraversa la Senna, viene rapito dalla sagoma di una giovane donna di spalle con una nuca “fresca e umida a cui non fui insensibile”. Comunque, dopo qualche istante di esitazione, prosegue per la sua strada, indisturbato e assorto. Qualche passo dopo, come un segno tangibile e definitivo, ode un tonfo di corpo che cade in acqua, qualche grido lamentevole ripetuto che, d’improvviso, cessa bruscamente fra le acque. Immobile. Un solo pensiero: “Troppo tardi, troppo lontano”. Ecco, definitiva e terribile, la frattura, al centro del volto, chiara e irrimediabile. La consapevolezza si scopre e fa scoprire, si insinua, penetra, affonda: l’abbandono alla vita, la farsa scenica, la menzogna. Tutto questo, solo questo è sempre stata l’esistenza. “Non son mai riuscito a credere veramente che le faccende umane fossero cose serie”, ripete. E allora fingere ancora, e ancora, e mentire, e servire, ed essere servito, e credere ancora, e agire ancora, e osservare, e recitare. Inevitabile il crollo di un pensiero già incrinato. Le vertigini, il vuoto, la reazione, le grida di una coscienza che si ribella in un corpo perfetto e corrotto. Basta, la fuga, lontano dalla vita distrutta ma non annientata, ad Amsterdam per aprire un infimo locale dal nome Mexico-City, “e ogni volta che posso, predico nella mia chiesa di Mexico-City”. La vita ricalcitrante, da giudice a penitente, da penitente a giudice, le strade si incrociano e si intrecciano, maturano e insieme marciscono. No, non c’è la redenzione, non si cambia: il ritratto è completo, io sono caduto e con me anche voi. Ci vorrebbe una seconda chance, una seconda volta, ma no, no, non c’è: le acque sono fredde, la nuca sparita, la voce già liquida e assente. “Troppo tardi, troppo lontano”.
Parlare de La caduta di Camus è certamente impresa ardua e complessa. È invero uno di quei libri che segnano definitivamente la rottura fra ciò che è stato prima e ciò che è dopo, fra l’assenza e la presenza, fra la vuotezza e la pienezza. Nella sua scrittura essenziale, breve, esistenziale, incisiva e decisiva, Camus riesce a modellare un universo reale e tangibile, crudele e terribile, crudo ed essenziale, e soprattutto, e gliene siamo grati, che non sa e non vuole mentire. La redenzione crolla per lasciare il posto alla condanna, allo specchio nudo che ci rivela per quello che siamo. Jean-Baptiste è un eroe che non salva, un eroe giudicato e condannato che, con durezza e vigore, giudica e condanna; è lui stesso a contemplare il crollo della sua testa; eccitato l’osserva essere innalzata dinnanzi al mondo affinché “vi si riconoscano e io li domini di nuovo”. È con ironia, con giudizio, con incredibile sensibilità e precisione che Camus attacca e fa crollare un sistema di valori completamente vuoto, penetrando fra le sue suture più interne. È con esse che prende familiarità, le accoglie, le scruta, le accarezza per poi farle capitolare inesorabilmente sotto i colpi della verità. In poco più di ottanta pagine il lettore viene rapito visceralmente, reso partecipe dal sapiente e gustoso utilizzo della seconda persona singolare, che fa immedesimare all’istante il fruitore con il silente personaggio a cui si rivolge il protagonista. È l’incredibile sensibilità della prosa dello scrittore francese a colpire e sconvolgere, la sua capacità di equilibrare gli affondi e le ritirate, i fendenti e le carezze lenitive, la durezza e la morbidezza, fino alla caduta finale. Quella di Clamence, come lui stesso scrive, è un’ “anonima carriera di falso profeta che grida nel deserto e rifiuta di uscirne”, in grado di fabbricare “un ritratto di tutti e di nessuno”, “una maschera davanti a cui si è portati a dire «Guarda un po’, quel tipo l’ho già incontrato!»”. Ecco il terribile segreto, svelato ormai quando il ritratto è concluso, la condanna già piombata e pesante. Ma c’è un altro piccolo segreto che Jean-Baptiste possiede e svela: “Io ho una superiorità, quella di sapere, il che mi dà diritto di parlare”. E allora l’ultimo richiamo è possibile, sincero, disperato: tutti siamo condannati, vi siamo immersi senza vie d’uscita, ora più che mai. Ma se il destino è inevitabile, l’immobilità è una colpa imperdonabile: “Dico soltanto che ci sono sulla terra flagelli e vittime, e che bisogna, per quanto è possibile, rifiutarsi di essere col flagello. Questo le sembrerà forse un po’ semplice, e io non so se è semplice, ma so che è vero”, conclude il suo discorso Tarrou, personaggio de La peste, altro splendido romanzo di Camus. Allora è vero, una sola via è possibile e percorribile, e passa per la consapevolezza, per la conoscenza, per il giudizio. Il velo deve essere tolto, la verità, seppur dolorosa, urlata e professata, il giudizio espresso, la parola rivelata. Il processo è lungo, sincero, emozionante, essenziale, e non può che attraversare inevitabilmente, in questo noi crediamo pienamente, l’opera di Albert Camus. La caduta, con la sua grazia crudele, la sua appassionante sincerità, la sua benevola crudezza, ne è un esempio alto e duraturo.
Luigi Bianco
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