La sabbia di Léman di Carmine Sorrentino è un piccolo gioiello di quella narrativa che ormai solo piccoli editori indipendenti scelgono di pubblicare in barba a un mercato che richiede storie banali di falsi sentimenti e scadente fattura.
È un raccontare dove la scrittura affonda nella zona più lussureggiante e ricca della lingua italiana, quella che non si accontenta dell’approssimazione e del luogo comune. Una misura poetica e allo stesso tempo rigorosa, che poco concede al sentimentalismo e alla facile empatia.
I sentimenti, in queste pagine, sono intensi, fatti di corpi desideranti che mischiano le loro vite, scalzandone le radici e irridendo le convenzioni. Così è l’amore, tra Carlo, pittore di cieli e nuvole, e Sebastian fisico nucleare al CERN di Losanna, dove Carlo si trasferisce per seguire il compagno nel suo lavoro.
“Tutto procedeva magnificamente, senza intoppi tanto da non farci rimpiangere il nostro esilio volontario dalle più belle città del mondo, Roma e Parigi.”
Fino a che “(…) Sebastian era inaspettatamente cambiato, silenziosamente inquieto e distante (…) Mi stava mollando come fa un bimbo incurante col filo del suo palloncino, davanti al lago di Léman”.
Con la freddezza di chi vuole compiere un passo definitivo Sebastian lascia Carlo per tornare dalla moglie e, da questo abbandono, dal dolore di un’assenza che lo annichilisce e lo perde a se stesso, prende l’avvio il viaggio, reale e metaforico,che Carlo compie per affrontare lo smarrimento di quella perdita.
“Al riparo di Sebastian, mi sentivo un uomo integro, al sicuro dall’usura delle mie paure. La sua perdita era stata come lo scoppio accidentale di una granata che aveva lasciato indenne solo me, distruggendo tutto il resto”
Così abbandona la Svizzera e fa ritorno nei luoghi dove prima di Sebastian riusciva a tenere a bada la sua inquietudine esistenziale, ma nulla può essere più lo stesso. Sebastian, e quanto della sua vita e dei suoi ricordi ha condiviso con lui,è un peso troppo grande, il fantasma di una passione che gli ha scorticato l’anima lasciandogli solo dolore e memorie sparpagliate. Carlo fruga in quelle memorie, cerca di ricucirle, di rimetterle assieme,per capire chi fosse davvero l’uomo che ha amato e cosa non ha saputo comprendere di lui. Ripercorre quanto gli ha raccontato della sua infanzia, il segno profondo dell’educazione ebraica della nonna Miriam,gli episodi di famiglia che hanno incrociatola tragedia dell’Olocausto e delle persecuzioni in Europa.Scopre un Sebastian oppresso da un profondo senso di disfacimento e di morte per il quale, persino il luogo dove ha scelto di abitare assieme a Carlo, la riva del lago di Léman, per una crudele casualità, diventa il memento mori della sua condizione esistenziale.
Il lago di Léman è legato a un’antica leggenda raccontata a Sebastian da un’amica: “Così è narrato infatti nelle cronache medievali: nel 563 il Tauredunum, cioè una catastrofica onda anomala, tanto più anomala perché un lago, aveva sommerso villaggi e cittadine, arrivando con la sua carica distruttiva fino a Ginevra (…). Quell’episodio oscuro, e allora inintelligibile, aveva creato l’humus perfetto per la nascita della leggenda del lago come gigantesca pietra tombale. Il possibile necrologio QUI GIACE L’INTERA UMANITÀ, che solo un serafino sarebbe stato in grado di sostenere, aveva calamitato l’attenzione e la fantasia di Sebastien: sì, il lago come il grande sarcofago terrestre aveva un fascino straordinario”. È questa immagine di morte e di catastrofe che rimanda alla Shoah e alla distruzione dell’umano,che giorno dopo giorno,incombe sulla loro relazione fino a consumarne la spinta vitale.
A questo percorso a ritroso che Carlo compie nel tempo della sua vita e in quella del compagno amato, fa da contrappunto il viaggio reale che, come una sfida con se stesso, decide di intraprendere abbandonando Roma dov’era approdato fuggendo da Losanna. Un percorso che lo conduce fino al deserto giordano del Wadi Rum.
“Ho scelto il deserto per iniziare un percorso di liberazione, l’unico spazio capace di affrancarmi dal mio senso di sconfitta. La sua “vuota” architettura mi suggerisce la libertà da ogni giudizio e la possibilità di toccare me stesso.”
Qui, nella notte a cavallo del Capodanno, al tepore del falò che rischiara e riscalda il buio freddo del deserto,entra in profonda comunione con Amin, il giovane arabo che fa da guida alle carovane dei turisti.Un incontro speciale che si condensa nella lunga notte di chiacchiere e confessioni nella quale la vicinanza dei corpi rompe il grumo delle emozioni e delle paure di Carlo. Il suo mondo cerebrale e tortuoso incontra la genuinità e il senso profondo e vitale di Amin, una capacità di accogliere e comprendere che scioglie la sua disperazione e la sua solitudine.
Una notte unica, un tempo breve ma sconfinato, nella quale Amin novello Virgilio lo conduce fuori, a riveder le stelle, alla fine dell’oscurità interiore che lo aveva inghiottito.
La sabbia di Léman prende l’avvio dallo sguardo estatico di un piccolo essere in adorazione per l’immagine di rara bellezza di una piccola statua di paglia e porcellana che raffigura la Vergine del lutto, e si chiude con l’epilogo, in forma di lettera, nel quale Sebastian tenta, forse, un ricongiungimento o una giustificazione,raccontando la dedizione estrema di una donna alla sua compagna amata e perduta per un male incurabile, della quale ricercherà, fino alla pazzia e all’annullamento, le sembianze in una statua che raffigura la Vergine delle serpi, che la donna riveste delle pelli marezzate dei rettili.
Pagine dove la bellezza, l’amore, la perdita, la morte, il dolore,prendono il sopravvento sull’umano, diventano estatica passività, trascendenza sacra, negazione di sé, l’opposto di quella ricerca sofferta ma necessaria, di quel viaggio nella memoria e nel tempo, che Carlo compie per emendare il dolore e aprirsi nuovamente alla vita.
“Il perdurare di un dolore, per quanto profondo e sentito, è l’unica cosa davvero contro natura per ogni essere umano. Il dolore, come ogni altro stato, ha un suo ciclo che ne prevede l’ineluttabile fine. Spesso, ci si ancora ad esso solo perché il vuoto che può seguire la sua fine fa molta più paura. È un vuoto che si percepisce come una passeggiata in uno spazio senza riferimenti, una camminata nel deserto. Il vuoto non è mai complice. Non è mai duro. Non è mai tenero. Il vuoto è uno specchio, mentre il dolore una condizione.”
Daniela Frascati
Qui trovate la scheda del libro della casa editrice.
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