Poesia

L’estate del mondo

Galloni Gabriele

Descrizione: La nuova silloge poetica di Gabriele Galloni

Categoria: Poesia

Editore: Marco Saya

Collana: Sottotraccia

Anno: 2019

ISBN: 9788898243877

Recensito da Angelo Favaro

Le Vostre recensioni

L’estate del mondo, Marco Saya Edizioni

Cosa può l’estate? E se è L’estate del mondo? Qualcosa che credo d’aver capito sul poeta Gabriele Galloni e sulla sua poesia

Comporta rischi gravi e, sovente, danni irreparabili la critica a caldo. Ne sono stati e ne sono consapevoli gli intellettuali più avvertiti e capaci di non farsi prendere dall’entusiasmo recensivo, nell’immediatezza della consegna del plico con i volumi, o della visione filmica o ancora dello spettacolo teatrale, così come nel vagabondare durante i vernissage.

Siamo finalmente in estate, e posso scriverne, dopo alcune riletture e molti mesi, da quando ho ricevuto la copia della silloge di Galloni L’estate del mondo: mesi di lockdown, mentre ancora una pandemia devastante sta flagellando il pianeta. Ecco alcune considerazioni, breviter et comiter su cosa credo d’aver capito.

Quale estate? Di quale mondo?

Sempre dirai, improvvisamente seria,
di non essere mai riuscita a credere
quanto sia strano esistere nel mondo,
dirsi nel mondo – il mondo che è già mare

e tu che puoi saperlo, il mondo, se
c’è un po’ di vento a fare

i giochi suoi tra polvere e altalena.

            Penso a Renato Serra, che vide la sua ultima estate in questo mondo, nella trincea sul Monte Podgora (20 luglio 1915), e solo due anni prima, nel 1913, volendo tracciare un bilancio sulle condizioni della letteratura d’Italia, e non in Italia, osservava: «Il libro, il giornale, ossia la produzione di codesta “letteratura” è diventata, anche per quel che si vede e si misura materialmente, una parte assai notevole della vita nazionale», e non volendo dare statistiche o dati precisi, si soffermava a scorrere i notiziari librari delle case editrici o le vetrine e gli spazi delle librerie, e se fino a pochi anni prima non si sarebbero visti che i soliti autori “principali”, oggi (sempre nel 1913), invece, c’è una tale abbondanza di novità, che «s’affollano, si sovrappongono, ritagliano, l’uno sull’altro, […] bianco sul giallo, rosso sul verde, cuoio vecchio e mattone cupo, oro nuovo e nero liscio di caratteri sulle carte granulose o inamidate… ». Quantità non significa eccellenza, aggiungiamo noi: «adesso è un diluvio di carta stampata che rifluisce da ogni parte». Così si poteva leggere nel volume Le Lettere alle pagine 9-10 (cito dalla prima e preziosa edizione, di C. A. Bontempelli, Roma 1914, nel numero 6 de «L’Italia di oggi»). «Chi dice editori, dice anche autori. Gli uni non possono crescere senza gli altri […]. Si è parlato anche da noi di crisi libraria, che è piuttosto un fenomeno generale europeo […]; e anche in Italia tutti i giovani un po’ impazienti e i geni un po’ falliti si lamentano della ottusità del pubblico, della meschinità degli editori, della indifferenza, delle angustie di ogni genere che chiudon la strada.» (p. 11). Fin qui, come non concordare con il nostro? Poco oltre le cose divergono e di molto: l’analisi veramente lascia intendere le differenze epocali, fra quel primo ventennio del XX secolo, e questo nostro appena inaugurato ventennio del XXI secolo: «da noi i libri si leggono e si vendono, con una facilità ragionevole e sicura. Le tirature non sono grandi […]. Pensate, per esempio, al successo dei Colloqui di Guido Gozzano, poche pagine di poesia pura. E come lui, quanti altri, uomini e donne, autori di versi o di novelle o di critica!» (p. 12) All’epoca non ci sarebbe stato da scialare, ma “anche le lettere [davano] di che vivere”: e tutti gli editori avevano qualcosa di valido e di meno valido. Potremmo proseguire leggendo e diffondendo le considerazioni di Serra, ma ci vogliamo soffermare su due punti: la poesia pura di Gozzano e la possibilità di vivere con le lettere. Comincio subito sgombrando il campo da fraintendimenti: da noi i libri non si leggono e non si vendono, con la scrittura letteraria e, in particolare con la poesia, non si campa, non dico un mese, nemmeno un giorno! Coraggioso l’editore Marco Saya. E qui chiudiamo subito il discorso: chi pensa che carmina dant panem si metta l’anima in pace e restituisca la negazione al motto. Davvero carmina non dant panem.

Galloni è un giovane d’altri tempi, un tipo bayronian-baudeleriano, uno che avremmo potuto incontrare a conversare insieme a Allen Ginsberg e Lawrence Ferlinghetti, forse proprio mentre il primo proponeva all’altro la pubblicazione di Urlo, il più maledetto fra i libri maledetti degli anni Cinquanta; o ancora in una notte di bisbocce con Burroughs e Kerouac: probabilmente c’era anche lui, in quell’estate di un altro mondo, nel 1944, quando inopinatamente William e Jack furono arrestati, perché, pur essendo a conoscenza dell’omicidio di David Kammerer, commesso dal bellissimo (dicono) Lucien Carr, si guardarono bene dal denunciare il fatto, ma soprattutto dal mettere la polizia sulle tracce del cadavere, ormai trascinato dalla corrente dello Hudson. Era il 13 agosto.

Un po’ clochard, un po’ studente, molto vagabondo, lettore e spettatore di film, onnivoro e insaziabile, nevrotico e solo, sostanzialmente solo, nonostante tutto e nonostante gli amici, più o meno celebri o ignoti, Gabriele Galloni è un poeta puro.

Potremmo fermarci qui, e lasciare a ciascuno la libertà di avvalorare o smentire un’affermazione espressa troppo vigorosamente e soprattutto non corroborata da alcuna prova. Non ci fermiamo, e non ci interessa di portare prove, non è un delitto. Non c’è nessun cadavere.

Un poeta puro, perché vive la vita di un poeta. O poeticamente affronta la vita, perciò nei suoi versi si distilla poesia pura, come Serra aveva già detto per Gozzano, letto, citato, amato da Galloni.

Se lo si incontrasse per strada (immagino, non lo ho mai incontrato) farebbe uno strano effetto: un tossico, un brigatista, un dandy, un principe, dall’espressione spaesata, tormentata, malinconica, beffarda, la sensazione sarebbe di totale straniamento. Come incontrare un lord, vestito di tutto punto per Ascot, in un deserto petroso; o nel bel mezzo degli Champs, un incantatore di serpenti appena giunto da Marrakech o da Purba Bishnupur. Come un personaggio shakespeariano balzato fuori, costumi secenteschi indosso, da Much Ado About Nothing, a vagabondare per le vie di una borgata romana, il Mandrione o Tor Bella Monaca. La pletora di passaggi e di paesaggi che si vorrebbe evocare è tale da indurre al silenzio e alla determinazione di non proseguire con gli exempla, diversamente emblematici. Si è compreso che il poeta in quanto poeta nel 2020 d. C., è un essere assurdo, riemerso dall’assurdo (nella definizione di Martin Julius Esslin, eteronimo non meno strano di Julius Pereszlényi).

Quanti anni ha Gabriele Galloni? Se lo dovessimo desumere dall’Estate del mondo, diremmo intorno ai quaranta, quarantacinque: la sua scrittura è la prova (dopo Leopardi e Rimbaud, forse ormai non più tanto probante) che l’anagrafe non aiuta minimamente, in alcuni casi, a comprendere versi, testi, atmosfere, significati (che poi in poesia sono sempre solo significanti): nostalgica è questa Estate, di una nostalgia talmente incurabile che lascia attoniti, come sulla soglia di un cronotopico liminal space invalicabile, recupero adolescenziale incantato dalla parte della maturità smagata.

Dopo Slittamenti e In che luce cadranno, amatissimo volume inobliabile, completa il trittico L’estate del mondo: una silloge di versi pubblicata al n. 11 della collana Sottotraccia, diretta da Antonio Bux, per Marco Saya Edizioni, composta nel 2019, da 66 testi poetici – se ho ben contato -, ma la disposizione inganna talvolta, la maggior parte in endecasillabi sciolti. Tre sezioni scandiscono la jeune poésie du vieil homme: la prima dà il titolo alla racconta L’estate del mondo, la seconda è Vista spiaggia, quasi un intermezzo, la terza Conclusione della passeggiata. Poema, poema… mi verrebbe da dire e non raccolta!

Brama di consumarsi mista ad un’intensa e viscerale sensualità, che prende forma in notti lunari e spiagge assolate, o in stanze corrose dalla salsedine, attraversano i versi finemente cesellati e non senza la volontà di esporsi nella persistenza della memoria, nella frizione insistente fra vizi pubblici e private virtù. Intimamente si spende l’esistenza ordinaria in uno straordinario e superiore sentimento della precarietà, della labilità, della fine. Lo spazio magmatico dell’avventura di un’estate, che è tutte le estati, geograficamente si estende da Ostia-Fiumicino a Nettuno, lungo una marina tirrenica che è insieme, in alcuni punti, sublime e, in altri, squallida, in una ossessiva e nichilista fotografica mostra di scatti d’anima, dove tutto diviene mito e rito, perché memoria d’adolescente:

Ma non ho nulla, cielo, da mostrarti.

Ecco: sorprendimi giù a Fiumicino,
tra i Dioscuri e le case popolari;

fa’ ch’io raccolga l’ultima conchiglia
dell’estate, occhi chiari;

e la conservi agli anni in una tasca
così profonda da dimenticarmene.

Assurdo e paradossale il sarcasmo del tempo: si conserva qualcosa per poterlo dimenticare, così come malata la sorpresa che si dovrebbe consumare fra i Dioscuri e le case popolari a Fiumicino. Il pensiero si disfa in versi mai ordinari e che varcano i limiti della condizione d’osservazione, per fissarsi in microallegorie, o in allegorie di una vita minima, che solo la poesia sa far assurgere alla dignità del senso, nella contingenza del non-senso. Rimangono gli occhi chiari celati nella madreperla dell’ultima conchiglia raccolta.

Luna di luglio: dalla tua finestra
scoperta di sfuggita sopra il mare.

Per poco, ma l’abbiamo fatta nostra
pensando fosse un fondo di bicchiere.

Luna di mare; ciotole di legno
in fila tutte lungo il davanzale.

Il cielo non si asciuga – intanto
la marea sale.

Così nelle sequenze allitteranti di parole accolte da un lessico quotidiano, quasi nella loro scarna banalità, si genera il cortocircuito con lo scatto dinamico delle azioni (la scoperta dalla finestra, l’abbiamo fatta nostra, le ciotole messe in fila, la marea che sale) e con l’attrazione del “notturno” chiaro di Luna, sempre romanticamente (quindi drammaticamente) indeformabile.

Fino alla tentazione di un surreale maledettismo che si riannoda all’originario spirito ellenistico (frammento epigrammatico di un’Antologia Planudea ritrovata):

Ma quanto ci ingannammo, sulla Luna.
Chi la credette un foro sulla tela
del cielo; e chi pensò fosse la Luna
l’aurea riserva degli angeli.

Gli angeli, nella poesia di Galloni, hanno sempre una funzione e assolvono ad un ruolo sinistro e imprevedibile, appaiono epigoni luciferini, eppure è delizia ineffabile trovarseli di fronte, così nel loro orgiastico volteggiare, come nella pala d’altare della visione di San Francesco del Borgianni.

L’estate del mondo condensa un’estate di perdite e di addii, di mai e di persempre, quelli che non si possono pronunciare nella vita, ma soltanto nella poesia, che Galloni sa far diventare fenomenologia di un monologismo poroso, in attesa di un incontro che avvii il dialogo. Molto ci sarebbe da dire sulla smania endecasillabica, che talvolta rende il verso manierato, perché sottoposto ad un cesello ossessivo, ma sufficiente rilevare che l’irriducibile può arruolarsi al servizio della passione, e cedere alla necessità della sostanza, studiando un’altra forma, un nuovo canto.

Renato Serra scriveva, poco prima di morire, come presentendo quel che sarebbe avvenuto: «La guerra è un fatto, come tanti altri in questo mondo; è enorme, ma è quello solo; accanto agli altri, che sono stati e che saranno: non vi aggiunge; non vi toglie nulla. Non cambia nulla, assolutamente, nel mondo. Neanche la letteratura» (Esame di coscienza di un letterato, Sellerio, Palermo 1994, p. 11). Ormai tutto è guerra, passiamo da una trincea all’altra, fra crisi economiche e pandemiche; non è vero che non cambia nulla, non è vero che non aggiunge e non toglie, al contrario… tuttavia non possiamo e non vogliamo disperare della e con la letteratura: quando scopriamo poesia che accende una inusitata e inspiegabile gioia nel cuore e ci lancia nella nostalgia d’un lontano, forse nemmeno veramente vissuto, forse nemmeno nostro; quando accogliamo poesia che risuona in un’eco occulta e lacerante, ma distesa e aleteica, allora sì, possiamo convenire con Serra che la guerra non cambia la letteratura, nel senso che non la diminuisce e non la distanzia, non la annichilisce, la magnifica, quando ci si imbatte in una poesia senza pudore ardisce e osa cantare L’estate del mondo, così:

Scoprimmo dunque che non vi è più vera
tenerezza del coltivare sabbia;
sabbia di Luna giù a Ponte Galeria:
e chi ne vuole avere, cielo, ne abbia.

Angelo Favaro

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