Narrativa

Lo straniero

Camus Albert

Descrizione: Pubblicato nel 1942, "Lo straniero" è un classico della letteratura contemporanea: protagonista è Meursault, un modesto impiegato che vive ad Algeri in uno stato di indifferenza, di estraneità a se stesso e al mondo. Un giorno, dopo un litigio, inesplicabilmente Meursault uccide un arabo. Viene arrestato e si consegna, del tutto impassibile, alle inevitabili conseguenze del fatto - il processo e la condanna a morte - senza cercare giustificazioni, difese o menzogne. Meursault è un eroe "assurdo", e la sua lucida coscienza del reale gli permette di giungere attraverso una logica esasperata alla verità di essere e di sentire.

Categoria: Narrativa

Editore: Bompiani

Collana: Grandi tascabili

Anno: 2015

Traduttore: Sergio Claudio Perroni

ISBN: 9788845277634

Recensito da Elpis Bruno

Le Vostre recensioni

Ho riletto Lo straniero di Albert Camus nella nuova traduzione di Sergio Claudio Perroni, preceduta dall’introduzione di Roberto Saviano (“Camus nella sua vita si sentirà straniero sempre e per tutti. Straniero in Algeria perché privilegiato, straniero tra i francesi perché proveniente da una famiglia di pieds-noirs”).
Ancora una volta mi sono sorpreso ad ammirare la perfezione di un romanzo costruito sulla contrapposizione tra la prima parte, dominata dalle premesse che poi sorreggeranno la storia, e la seconda sezione, apparentemente più giudiziaria (“Per certi versi m’interessava vedere un processo”), nella sostanza potentemente esistenzialista e impostata per fare emergere le contraddizioni della vita, della società, dell’individuo.

La lettura che fornisce Saviano – quella di un’estraneità montante e progressiva (“Camus… ne Lo straniero riesce a dare una rappresentazione plastica di cosa sia l’estraneità”) – è soltanto una delle possibili interpretazioni di un romanzo che dimostra una verità: per creare un capolavoro, non occorrono molte pagine, se le parole si rivelano nella loro essenzialità e non sono strumento retorico.

La prima parte, dicevo, pone mille domande.
Possibile che l’amore cessi o si debba esteriorizzare per dimostrare che persiste (“Prima vuole vedere sua madre un’ultima volta? Ho risposto di no”)?
Possibile che le apparenze prevalgano sempre (“Quella scomoda veglia aveva reso terrei i loro volti”)?
Possibile che le leggi del ciclo vitale siano a volte crudeli (“Ho pensato che era comunque un’altra domenica passata, adesso mamma era al cimitero, avrei ripreso il mio lavoro e, tutto sommato, non c’era niente di diverso”)?
Possibile che la natura sia una proiezione dei nostri stati d’animo (“La sera, in quel paese, doveva essere come una tregua malinconica. Adesso, invece, quel sole esasperato faceva vibrare il paesaggio e lo rendeva disumano e deprimente”)?
Possibile che il cambiamento sia premessa indispensabile (“Ho risposto che non si cambia mai vita, che comunque una vita vale l’altra e che la mia lì non mi dispiaceva affatto”)?
Possibile che la fisicità della vita (“Ho sentito i miei occhi stancarsi a furia di guardare i marciapiedi con il loro carico di persone e di luci”) prenda il sopravvento sull’immaterialità della vita stessa?
Possibile che i rapporti con gli altri siano lacci (“Ho scritto la lettera. L’ho buttata giù un po’ come veniva, però ho cercato di accontentare Raymond…”) e vincoli (“La sera, Marie è venuta a casa mia e mi ha chiesto se volessi sposarmi con lei”)?

Prima e seconda parte del romanzo esistono in quanto esiste una cesura (“Ormai sentivo solo il fragore del sole sulla fronte e, indistintamente, la spada abbacinante scaturita dal coltello che avevo ancora davanti”): un fatto violento, tanto necessario quanto accidentale (“Ho capito che avevo distrutto l’equilibrio del giorno, il silenzio eccezionale di una spiaggia dov’ero stato felice”). “Ed è stato come se bussassi quattro volte alla porta dell’infelicità.”

A queste e a mille altre domande (“Il mio destino veniva deciso senza chiedere il mio parere”), la seconda parte fornisce risposte puntuali e lascia sospesi mille interrogativi (“Dunque lei non ha alcuna speranza e vive con l’idea di morire del tutto?”) e quesiti insolubili (“Come avevo potuto non rendermi conto che non c’era niente di più importante di un’esecuzione capitale e che, in fondo, era l’unica cosa davvero interessante per un uomo?”), non soltanto processuali: “Perché, perché ha sparato su un corpo inerte?”

Ed ecco allora qualche risposta alle domande sopra formulate.
No, l’esteriorità è immanente alla vita (“Se non sceglie un avvocato, ne nomineremo uno d’ufficio”).
Sì, le apparenze prevalgono (“Ecco l’immagine di questo processo. Tutto è vero e niente è vero”).
E la vita è per lo più crudele (“In fondo sapevo che morire a trent’anni o a settanta importa poco, giacché in entrambi i casi, naturalmente, altri uomini e altre donne continueranno a vivere, e questo per migliaia di anni”).
La natura ci corrisponde (“Tutto si fermava lì, tra il mare, la sabbia e il sole, il doppio silenzio dello zufolo e dell’acqua”).
Il cambiamento è soltanto una forma dell’esistenza (“Non mi ero reso conto di quanto i giorni potessero essere al tempo stesso lunghi e brevi. Lunghi da vivere, senza dubbio, ma così dilatati da finire per riversarsi gli uni negli altri”).
La vita fisica a volte schiaccia (“Gli ho spiegato che spesso le mie esigenze fisiche interferivano con i miei sentimenti”) e detta le leggi (“… Ho detto che era stato per via del sole. Nell’aula qualcuno ha riso”).
I rapporti sociali sono lacci, gabbie (“Signori giurati, all’indomani della morte di sua madre, quest’uomo andava al mare, iniziava una relazione irregolare e si faceva quattro risate con un film comico”), vincoli e condizionamenti (“Mi guardavano tutti: ho capito che erano i giurati… Ho avuto solo un’impressione: ero seduto davanti a un sedile di tram e quei viaggiatori anonimi spiavano l’ultimo arrivato per coglierne il ridicolo”). Come tutte le costruzioni dell’uomo (“Sa, il suo caso l’abbiamo un po’ montato. L’estate è una stagione morta per i giornali. E di storie interessanti avevamo solo la sua e quella del parricida”).

E conviene allora sperare nel fragore esagerato di una soluzione finale, ribelle e paradossale: “Perché tutto fosse consumato, perché mi sentissi meno solo, dovevo solo augurarmi che ci fossero molti spettatori il giorno della mia esecuzione, e che mi accogliessero con grida di odio”.

Bruno Elpis

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