Novità editoriali

Maniac

Labatut Benjamin

Descrizione: L’odissea nera di John von Neumann, l’uomo che disegnò la mappa infernale del mondo che oggi abitiamo, nel nuovo straordinario libro di Benjamín Labatut.

Categoria: Novità editoriali

Editore: Adelphi

Collana: Fabula

Anno: 2023

ISBN: 9788845938320

Recensito da Redazione i-LIBRI

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Maniac di Benjamín Labatut (Autore) , Norman Gobetti (Traduttore), Adelphi, 2023 – disponibile da oggi, 29 settembre 2023

L’odissea nera di John von Neumann, l’uomo che disegnò la mappa infernale del mondo che oggi abitiamo, nel nuovo straordinario libro di Benjamín Labatut.

Quando alla fine della seconda guerra mondiale John von Neumann concepisce il maniac – un calcolatore universale che doveva, nelle intenzioni del suo creatore, «afferrare la scienza alla gola scatenando un potere di calcolo illimitato» –, sono in pochi a rendersi conto che il mondo sta per cambiare per sempre. Perché quel congegno rivoluzionario – parto di una mente ordinatrice a un tempo cinica e visionaria, infantile e «inesorabilmente logica» – non solo schiude dinanzi al genere umano le sterminate praterie dell’informatica e dell’intelligenza artificiale, ma lo conduce sull’orlo dell’estinzione, liberando i fantasmi della guerra termonucleare. Che «nell’anima della fisica» si fosse annidato un demone lo aveva del resto già intuito Paul Ehrenfest, sin dalla scoperta della realtà quantistica e delle nuove leggi che governavano l’atomo, prima di darsi tragicamente la morte. Sono sogni grandiosi e insieme incubi tremendi, quelli scaturiti dal genio di von Neumann, dentro i quali Labatut ci sprofonda, lasciando la parola a un coro di voci: delle grandi menti matematiche del tempo, ma anche di familiari e amici che furono testimoni della sua inarrestabile ascesa. Ci ritroveremo a Los Alamos, nel quartier generale di Oppenheimer, fra i «marziani ungheresi» che costruirono la prima bomba atomica; e ancora a Princeton, nelle stanze dove vennero gettate le basi delle tecnologie digitali che oggi plasmano la nostra vita. Infine, assisteremo ipnotizzati alla sconfitta del campione mondiale di go, Lee Sedol, che soccombe di fronte allo strapotere della nuova divinità di Google, AlphaGo. Una divinità ancora ibrida e capricciosa, che sbaglia, delira, agisce per pura ispirazione – a cui altre seguiranno, sempre più potenti, sempre più terrificanti.
Con questo nuovo libro, che prosegue idealmente Quando abbiamo smesso di capire il mondo, Labatut si conferma uno straordinario tessitore di storie, capace di trascinare il lettore nei labirinti della scienza moderna, lasciandogli intravedere l’oscurità che la nutre.

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Leggi in forma integrale il commento di Paolo Giordano sul Corriere online a questo link

Alle origini dell’Intelligenza artificiale: «Maniac», il nuovo romanzo di Benjamín Labatut

È quasi irresistibile la tentazione, leggendo Maniac, di consultare la rete ogni due paragrafi per controllare la corrispondenza storica di ciò che Benjamín Labatut sta raccontando. Tanto che da un certo punto in avanti mi sono imposto di smettere. Ho accettato una volta per tutte il patto originalissimo che Labatut stringe con la verità storica e con noi lettori, un patto che enuncia con apparente semplicità nella pagina finale: «Questo libro è un’opera di finzione basata sulla realtà». La realtà sono le biografie di due matematici e un giocatore di go: Paul Ehrenfest, John von Neumann e Lee Sedol. La finzione è tutto ciò che Labatut aggiunge a quelle vite, ed è soprattutto il modo in cui le collega fra loro, in un percorso di senso che nel romanzo appare ineluttabile e che arriva fino ai giorni nostri. Ridotto a un’unica frase insoddisfacente, Maniac (…) è la storia inquietante dell’intelligenza artificiale, dalla sua genesi fino ai giorni nostri, attraverso le storie di chi l’ha concepita.

Come in Quando abbiamo smesso di capire il mondo, la scienza è di nuovo al centro quindi, la matematica al posto della fisica, e le vite immaginarie di personaggi illustri, alla maniera di Marcel Schwob, servono di nuovo per raccontarla. Per quanto il romanzo sia denso di informazione, l’intenzione di Labatut non è affatto divulgativa, quasi il contrario, dalla lettura si esce molto più turbati che informati. Perché ciò a cui lo scrittore è interessato, ancora una volta, è un punto oscuro, misterioso e indicibile — folle! — che sta appena al di là della conoscenza. I fisici quantistici di Quando abbiamo smesso di capire il mondo perdevano il senno addentrandosi in verità sulla materia e sul cosmo che la loro natura umana non era in grado di contenere; i tre personaggi che si passano il testimone in Maniac assistono alla creazione di mostri tecnologici partoriti dall’intelletto umano.

Nelle prime scioccanti righe del romanzo, il fisico Paul Ehrenfest entra in un istituto per bambini infermi di Amsterdam armato di una pistola e uccide il figlio Vasilij, affetto da sindrome di Down, quindi si suicida. Tutto vero, è successo esattamente novant’anni fa, il 25 settembre 1933. A quell’epoca «i folli sogni della ragione» che condurranno infine alla creazione dell’intelligenza artificiale erano ancora del tutto informi, nemmeno veri e propri presentimenti, ma nell’immaginazione di Labatut sono loro a guidare la mano omicida di Ehrenfest. Un genio preveggente, oppresso dalle proprie visioni e dal senso di sventura che gli incombe addosso. Un’interpretazione non così lontana da quella che Sciascia ha dato della scomparsa di Ettore Majorana.

La genialità affascina Labatut più di ogni altra caratteristica umana ed è sempre una maledizione. Si rivelerà esiziale, infine, anche per John von Neumann, il secondo protagonista di Maniac e il più geniale fra tutti, perfino più di Einstein (sebbene, ammette Labatut, meno profondo di lui). John von Neumann: un calcolatore vivente, fin da bambino capace di umiliare senza sforzo i suoi insegnanti, risolvendo in pochi minuti e a mente i problemi ai quali si sono dedicati per mesi. La mente di Johnny — nato Janós in Ungheria, ebreo noncurante ma costretto a un certo punto a emigrare negli Stati Uniti a causa del nazismo — … è un congegno superlativo, disumano, anche nell’apparente assenza di emozione nei confronti di ciò che elabora senza sosta. Come in un documentario, Labatut ricostruisce la vita del matematico attraverso il montaggio delle testimonianze di chi lo ha conosciuto e frequentato: l’amico Eugene Wigner (il «soccombente» di questa storia), la prima e la seconda moglie, la figlia Marina, i colleghi tra cui Richard Feynman. Tutti affascinati e altrettanto intimoriti, per non dire inorriditi, dal cervello di Johnny e dalla sua anaffettività. «Questa capacità ultraterrena di scrutare il cuore delle cose (…) era non solo la chiave della sua peculiare genialità, ma anche la causa della sua quasi infantile cecità morale». John von Neumann è il solo a non parlare in prima persona nel libro. Dargli voce sarebbe impossibile d’altronde, troppo diverso da noi, dalla nostra intelligenza convenzionale, per osare indovinarne i pensieri.

I contributi di von Neumann alla scienza e alla tecnologia contemporanee sono così tanti e così variegati da faticare a elencarli. Aprì vie nuove nella logica, nella statistica, nella fisica e nell’economia, nell’informatica, nella biologia e nell’industria bellica. Il Maniac, da cui il romanzo prende il titolo, è una delle sue macchine, un progenitore dei nostri computer, concepito secondo i principi di Alan Turing ma a cui John von Neumann affida niente meno che il compito prometeico di riprodurre la formazione della vita sulla terra. Il Maniac viene costruito inizialmente, con una coincidenza alquanto sinistra, per svolgere i calcoli utili alla messa a punto della bomba H, l’arma più devastante mai realizzata dall’uomo. «È spaventoso il modo in cui funziona la scienza — scrive Labatut —. Pensateci per un secondo: la più creativa e la più distruttiva delle invenzioni umane comparvero esattamente nello stesso momento». Le grandi visioni della scienza sono sempre così per Labatut, impregnate di pericolo e delirio. Prefigurazioni di sofferenze abnormi. Con il Maniac, Janós arriva a sfidare Dio stesso, quel Dio in cui non crede, tanto che nelle sue affermazioni gli dèi compaiono quasi sempre al plurale, come divinità antiche. E tuttavia, almeno nella finzione di Labatut, quel Dio che John von Neumann ha ostinatamente negato infine gli si presenta, per chiedergli conto della sua arroganza. Un cancro aggredisce prima il pancreas poi la clavicola dello scienziato. Janós attraversa un’agonia che lo fa urlare di dolore, e solo allora cerca una redenzione tardiva. Al capolinea delle vite immaginarie di Labatut ci sono quasi sempre la malattia o l’impazzimento, spesso combinati: il solo esito possibile per coloro che con il proprio intelletto hanno osato competere con Dio.

Ma il dio artificiale partorito dalla mente di John von Neumann sopravvive a lui e dopo decenni di sonnolenza si reincarna nell’intelligenza artificiale di DeepMind. Siamo ormai alle soglie del presente. Il machine learning, le reti neurali e la poderosa potenza di calcolo sviluppata dall’informatica sono finalmente pronte a prendere la forma di un algoritmo sensazionale. Un algoritmo per fare cosa? Per giocare. Giocare al gioco più complesso che esista, molto più complesso degli scacchi: il go. Una griglia sulla quale i giocatori poggiano delle pietre bianche e nere, alternativamente, cercando di rubarsi il territorio a vicenda. Molto più di un gioco in effetti: una filosofia millenaria, nella quale si pensava che mai e poi mai una mente puramente matematica potesse prevalere sull’uomo, perché il go «richiede un particolare tipo di intelligenza e non lo si può giocare basandosi sul calcolo, bisogna procedere a tentoni».

E invece. Nelle cinque partite consecutive giocate a Seul nel marzo 2016, il campione Lee Sedol viene battuto quattro volte. Forse perché l’intelligenza artificiale con cui si scontra, AlphaGo, non è più puramente matematica, solo calcolo, è diventata nel frattempo qualcosa di diverso, per il quale l’unico paragone possibile è Dio. La terza e ultima parte di Maniac è la cronaca serrata e virtuosistica delle partite giocate da Lee Sedol contro la macchina. Un duello in cui a sfidarsi sono due entità molto più grandi: l’umano e il tecnologico. L’umano perde, possiamo anticiparlo, anche perché è cronaca. I fantasmi bui di Paul Ehrenfest si sono infine materializzati sotto forma dei circuiti e delle routine ricorsive di una macchina onnipotente. «La tecnologia è un’escrezione umana — aveva vaticinato von Neumann —. È parte di noi come la tela è parte del ragno. (…) Il pericolo è intrinseco. Per il progresso non c’è cura».

Nell’unica partita che riesce a vincere, tuttavia, Lee Sedol compie una mossa così strana da mandare in tilt l’algoritmo di AlphaGo. La mossa 78 della partita numero quattro. Analizzandola a posteriori, la macchina assegnerà a quella mossa una probabilità di uno su diecimila, praticamente nulla, come a dire che nessun giocatore dotato di senno l’avrebbe scelta. Ma Lee Sedol sì, spinto non dalla logica né dall’esperienza ma da un istinto misterioso, subitaneo e irrazionale. Quell’istinto che per Labatut si trova alla radice dell’umano, perché gli esseri umani «possono essere estremamente irrazionali, guidati e sviati dall’emotività, vittime di ogni sorta di contraddizioni. E questo, sebbene provochi il caos ingovernabile che vediamo tutt’intorno a noi, è anche una benedizione, uno strano angelo che ci protegge dai folli sogni della ragione».

La mossa 78 di Lee Sedol non esiste in nessun sistema coerente di assiomi — quel sistema di ordine assoluto che von Neumann sognava di trovare —, è del tutto nuova, è pura eccedenza, «una possessione», ma da sola è sufficiente a restituire un attimo di speranza all’umanità nella sua gara contro l’intelligenza artificiale. Ed è una mossa molto simile a quella che Benjamín Labatut sembra ritenere necessaria alla creatività stessa e alla scrittura di ogni suo ingegnoso romanzo.

(…)

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Labatut – nato a Rotterdam nel 1980, ma vive in Cile – ha vinto il Premio Malaparte…

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