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Classici

Moravia, Omero, Joyce e Dante

a cura di Bruno Elpis

Ne “Il disprezzo” di Alberto Moravia, il protagonista Riccardo Molteni viene ingaggiato per scrivere la sceneggiatura dell’Odissea. Si apre una discussione tra Molteni, il regista e il produttore per definire l’impostazione che il film deve avere.

Molteni vorrebbe prevalesse il rispetto (l’equivalente di quella che in diritto si chiama interpretazione letterale della norma) per lo spirito classico o la poesia implicita nell’opera omerica. Lo sceneggiatore dichiara la sua adesione alla raffigurazione di Ulisse nell’inferno dantesco (canto XXVI, sotto riportato).

Il regista Rheingold vorrebbe invece realizzare un film che privilegi gli aspetti psicologici della relazione tra Ulisse e Penelope. “Un film sui rapporti psicologici tra Ulisse e Penelope… Io intendo fare un film su un uomo che ama sua moglie e non ne è riamato”. Assumendo la teoria freudiana come strumento interpretativo: “è il subcosciente di Ulisse che via via crea ad Ulisse stesso dei buoni pretesti per star qui un anno, lì due anni e così via.”

Il produttore Battista punta invece sulla spettacolarizzazione, in sostanza mira a un kolossal che amplifichi gli elementi fantastici, mitologici ed erotici dell’Odissea (“Una storia per così dire spettacolare… questo ha voluto fare Omero”).

Nella perfetta architettura del romanzo moraviano, la disputa tripolare riproduce sia il dramna personale e coniugale di Molteni, sia la dialettica servo-padrone (“Battista era il padrone ed io il servitore e… il servitore tutto può fare, salvo disubbidire al padrone”) postulata dal potere del denaro nella società borghese  (“Sono io che pago”).

Bruno Elpis

Nella foto: Giorgio De Chirico, Il ritorno di Ulisse (1967)

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“La qualità distintiva dei poemi omerici e in genere dell’arte classica è di nascondere tali significati e mille altri che possono venire in mente a noialtri moderni, in una forma definitiva che chiamerei profonda… la bellezza dell’Odissea sta proprio in questo credere nella realtà come è e come si presenta oggettivamente… in questa forma, insomma, che non si lascia né analizzare né smontare… il mondo di Omero è un mondo reale… Omero apparteneva ad una civiltà che si era sviluppata in accordo e non in contrasto con la natura… per questo Omero credeva nella realtà del mondo sensibile e lo vedeva realmente come l’ha rappresentato e anche noi dovremmo prenderlo com’è, credendoci come ci credeva Omero, letteralmente, senza andare a cercare riposti significati.”

“Joyce anche lui interpretò l’Odissea alla maniera moderna… e nell’opera di modernizzazione, ossia di avvilimento, di riduzione di profanazione, andò molto più lontano di lei, caro Rheingold… Fece di Ulisse un cornuto, un onanista, un fannullone, un velleitario, un incapace; e di Penelope un’emerita Puttana… e Eolo diventò la redazione di un giornale, la discesa agli inferi il funerale di un compagno di ribotte, Circe la visita ad un bordello, e il ritorno ad Itaca il ritorno a casa, a notte alta, per le vie di Dublino, non senza una sosta per pisciare ad un cantone… ma almeno Joyce ebbe l’avvertenza di lasciare stare il Mediterraneo, il mare, il sole, il cielo, le terre inesplorate dell’antichità… Mise tutto quanto per le strade fango di una città del nord, nelle taverne, nei bordelli, nelle camere da letto, nei cessi… Niente sole, niente mare, niente cielo… tutto moderno, ossia tutto abbassato, avvilito, ridotto alla nostra miserabile statura…”

Alberto Moravia, Il disprezzo (1954)

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  1. O voi che siete due dentro ad un foco,
  2. s’io meritai di voi mentre ch’io vissi,
  3. s’io meritai di voi assai o poca
  4. quando nel mondo li alti versi scrissi,
  5. non vi movete; ma l’un di voi dica
  6. dove, per lui, perduto a morir gissi”.
  7. Lo maggior corno della fiamma antica
  8. cominciò a crollarsi mormorando
  9. pur come quella cui vento affatica;
  10. indi la cima qua e là menando,
  11. come fosse la lingua che parlasse,
  12. gittò voce di fuori, e disse: “Quando
  13. mi diparti’ da Circe, che sottrasse
  14. me più d’un anno là presso a Gaeta,
  15. prima che sì Enea la nomasse,
  16. né dolcezza di figlio, né la pieta
  17. del vecchio padre, né ‘l debito amore
  18. lo qual dovea Penelopé far lieta,
  19. vincer potero dentro a me l’ardore
  20. ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,
  21. e delli vizi umani e del valore;
  22. ma misi me per l’alto mare aperto
  23. sol con un legno e con quella compagna
  24. picciola dalla qual non fui diserto.
  25. L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
  26. fin nel Morrocco, e l’isola de’ Sardi,
  27. e l’altre che quel mare intorno bagna.
  28. Io e’ compagni eravam vecchi e tardi
  29. quando venimmo a quella foce stretta
  30. dov’Ercule segnò li suoi riguardi,
  31. acciò che l’uom più oltre non si metta:
  32. dalla man destra mi lasciai Sibilia,
  33. dall’altra già m’avea lasciata Setta.
  34. “O frati”, dissi “che per cento milia
  35. perigli siete giunti a l’occidente,
  36. a questa tanto picciola vigilia
  37. de’ nostri sensi ch’è del rimanente,
  38. non vogliate negar l’esperienza,
  39. di retro al sol, del mondo sanza gente.
  40. Considerate la vostra semenza:
  41. fatti non foste a viver come bruti,
  42. ma per seguir virtute e canoscenza”.
  43. Li miei compagni fec’io sì aguti,
  44. con questa orazion picciola, al cammino,
  45. che a pena poscia li avrei ritenuti;
  46. e volta nostra poppa nel mattino,
  47. dei remi facemmo ali al folle volo,
  48. sempre acquistando dal lato mancino.
  49. Tutte le stelle già de l’altro polo
  50. vedea la notte e ‘l nostro tanto basso,
  51. che non surgea fuor del marin suolo.
  52. Cinque volte racceso e tante casso
  53. lo lume era di sotto da la luna,
  54. poi che ‘ntrati eravam nell’alto passo,
  55. quando n’apparve una montagna, bruna
  56. per la distanza, e parvemi alta tanto
  57. quanto veduta non avea alcuna.
  58. Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto,
  59. ché de la nova terra un turbo nacque,
  60. e percosse del legno il primo canto.
  61. Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
  62. a la quarta levar la poppa in suso
  63. e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
  64. infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso”.

(Dante, Inferno, Canto XXVI)

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