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Racconti

La porta di Allah

a cura di Daniela Frascati

Il vento soffiava forte per le vie di Xandal, arrivava attraversando la geografia del globo e, come un fantasma acustico, s’incuneava nelle fessure della cella.
Farida, tessitrice di tappeti, giaceva rannicchiata in un angolo. Ha sedici anni, gli occhi profondi come la notte buia di cui parlano i mistici e la pelle chiara come la luna di marzo. È così bella e indomabile che deve morire.
Al tramonto del suo primo giorno di moglie, rubato il migliore tra i cammelli del vecchio a cui il padre l’aveva data in sposa, era fuggita scomparendo nell’oscurità del deserto.
Il qāḍī aveva accolto la testimonianza dei quattro uomini portati dal marito che accusavano Farida di adulterio e furto. Come diceva la Legge, quelle quattro testimonianze avevano deciso la sua sorte. Lapidata nella piazza del villaggio.
La fuga la rendeva ancora più colpevole ma, per il breve spazio di quella libertà rubata, diventava, finalmente, signora e padrona del suo destino.
Correva fendendo il buio e il freddo della notte. Correva con la paura nel sangue e negli occhi la profondità del cielo. Coltivava la flebile speranza di raggiungere l’oasi di Hanur prima dell’alba. In šāʾ Allāh, se Dio vuole. Aveva una notte di vantaggio sui suoi inseguitori e poteva farcela.
Le guardie e Raghib, la guida carovaniera, prima di lanciarsi alla caccia della giovane infedele, avevano aspettato che il qāḍī deliberasse la sentenza. Erano passate molte ore dalla fuga e, in più, una tempesta di vento li aveva costretti a trattenere il passo. Durò poco, ma intanto le dune si erano allungate formando una successione di catene sabbiose che coprivano ogni traccia di passaggio precedente.
I tre continuarono a scendere e salire dossi, prostrati dal sole e dalla sete. Il corpo bruciava come roccia eruttiva e la pelle ridotta a una lamina vetrosa che si tendeva sui muscoli. Davanti a loro, a dismisura, il deserto; finissima distesa di sabbia dai bagliori metallici sotto un cielo bianco.
Procedevano sballottati dall’andatura dei cammelli, in silenzio, trattenendo l’arsura per risparmiare l’acqua. All’improvviso una delle guardie gridò.
– Un pozzo, laggiù. – e scaraventò la sua cavalcatura in una corsa insensata, seguito dal compagno.
Raghib cercò di trattenerli, poi li vide scomparire nell’orizzonte martellato da ondate di calore, una galoppata verso il niente. Conosceva bene l’inganno dei miraggi e della fata morgana: l’aria che trema per effetto del calore e fa sembrare le cose, lì, a portata di mano.
Il deserto è come la realtà dei sogni. Bisogna saperlo interpretare. Questo aveva imparato Raghib in tanti anni che aveva fatto da guida alle carovane.
Continuò ad avanzare, lasciandosi portare dal cammello che deviava con un angolo di sessanta gradi dalla direzione nella quale erano spariti gli altri fino a che non vide sulla sabbia tracce di sterco di animale.
Sapeva che quando rinvieni quei segni è del tuo cammello che devi fidarti.
“È passata da qui” pensò.
Ma dopo un’ora, in quel nulla infuocato, lo prese l’angoscia. A perdita d’occhio solo il bagliore delle dune e il sole inesorabile. Si disse che non valeva la pena continuare quella tortura per inseguire l’adultera che la Legge aveva condannato alla lapidazione. Forse era già morta, risucchiata dal calore disseccante del deserto.
Poi, due alberelli stentati si levarono davanti ai suoi occhi. Era l’oasi di Hanur. Della bellezza rigogliosa e delle palme da dattero di un tempo non era rimasto nulla; qualche ciuffo d’erba e una pozza d’acqua che, malgrado l’incuria dell’abbandono, conservava ancora la limpidezza di quando era tappa obbligata sulla via della seta.
Un cammello solitario si abbeverava.
A poca distanza grosse pietre affioravano dalla sabbia a formare un antro naturale.
Scese dalla sua cavalcatura e lasciò che l’animale si dissetasse accanto all’altro.
Si diresse verso la caverna. L’ombra all’interno gli impediva di distinguere se ci fosse qualcuno.
Poi la vide. Era lì. Poco più che una ragazzina. Sembrava dormire, ma aveva un taglio imbrattato di sangue rappreso tra la tempia e lo zigomo. Forse si era ferita scivolando sui sassi davanti all’entrata.
Si accostò, sciolse un lembo del turbante, lo inzuppò con l’acqua della ghirba, le inumidì la fronte e, con delicatezza, ripulì la ferita.
La giovane si mosse appena; stentava a riprendere i sensi.
Raghib tornò fuori, girò intorno alle rocce fino alla sorgente. Si ripulì la faccia dalla sabbia e riempì con l’acqua fresca l’otre. Ritornò dalla ragazza, le sollevò la testa e la fece bere. Lei aprì gli occhi, lo guardò incerta, quasi quelle premure le avessero acceso una speranza.
– Sei Farida?
Annuì.
– Devo consegnarti al qāḍī.
Farida non disse nulla, il suo viso si sbiancò come la morte già la possedesse. A fatica si mise in piedi dirigendosi verso il cammello. Salì e aspettò che Raghib facesse lo stesso. Poi s’incamminò lentamente. Dell’uomo vedeva solo l’ombra che la seguiva, allungata dal sole ormai basso all’orizzonte.
Il buio sopraggiunse all’improvviso.
Si levò un vento sottile e tagliente che anticipava il freddo della notte.

Raghib aveva nella mente strade e luoghi lontani. La sua città caotica e solare. Le altane per tetto, con spessi tappeti e cuscini, e il vento della sera, capriccioso e levantino. Il vento non cessa mai, gli aveva detto una volta un vecchio marinaio. Lo ritrovi sempre da qualche altra parte. Ora corre coi demoni meridiani nella luce sfolgorante del deserto, spazza i giardini di limoni e melograno – Come sei candida Samira! – Ci sono disobbedienza e mistero in quelle parole. E trepidazione e inganno nelle sue mani che corrono sul corpo abbandonato della giovane cognata. – Fratello dal cuore di tenebra, perché, perché, l’hai fatto?! Dunque dovrò ucciderla. Non posso permettere che la vergogna macchi la nostra casa. – La porterò via con me! Lasciala andare, Talal. Non ce lo perdoneremo mai, se le darai la morte. – Lanciàti a capofitto nella notte, un attraversamento a cavallo, nell’apparente noncuranza della città addormentata, così chiara nel riflesso della luna da sembrare il simulacro della città di tufo e calce che crepitava nel giorno. – Perché non parli Samira?! Era una sera chiassosa e ardente, fuori dalle mura rossicce di Magassar. Il cielo, una cupola concava di stelle. Un mondo divino sopra le miserie umane. – Dimentica il dolore di Talal, non possiamo portarcelo dietro per sempre. – Sempre. Che parola assoluta. Un punto d’arrivo che non arriva mai. Ma Raghib ha diciassette anni, e Samira non ancora sedici. E la vita un estatico presente. Che c’entrano loro con la morte? La tua pelle di ceramica bianca tintinna sotto le sue carezze. Essere capita con l’anima, che c’è di più? Di più c’è il disonore e la vergogna. Hai gli occhi aperti e rivoltati, e le labbra gelide. Il canto addolcisce i morenti, Samira. Per questo è rimasto a cantare per ore accanto al tuo corpo che il veleno anneriva come la pelle di un Tuareg. Non ha neanche capito a quale terribile, atrocissimo dolore lo avevi condannato con la tua assenza, fino a che non è tornato in sé; e i suoi fratelli, Talal, più di tutti, lo hanno riabituato alla vita. Da allora ha giurato a se stesso, davanti alla tua morte che, mai più, avrebbe toccato un corpo di donna. Così è stato per trentaquattro anni. Prigioniero dell’inafferrabile volontà del destino. Ma, quello stesso destino lo aveva messo sulla strada di Farida e, come una maledizione, lo costringeva di nuovo a essere portatore di morte.
Afflitto da quel pensiero consegnò la ragazza alle guardie della prigione. La mattina dopo sarebbe partito prima che, sulla pubblica piazza, Farida fosse interrata e lapidata fino al dissanguamento.
Nella camera della locanda dove alloggiava la notte fu lunghissima. Non riusciva a dormire. Il passato era tornato presente, portando con sé il carico devastante della morte della giovane cognata, di cui si sentiva responsabile.
Non voleva essere complice di un’altra morte.
Quando riuscì ad abbandonarsi al sonno, lei gli venne incontro, piccola e tenerissima ragazza, vestita di finissime mussole nuziali, col capo coperto dal chador e lo sguardo abbassato. Sembrava quasi non toccare terra. Un brusio agitato arrivava da lontano. C’era molta luce, una luce bianca e polverosa che confondeva gli occhi. All’improvviso, da quel bianco abbacinante, uscì un’ombra e cominciò a rincorrerla. Correva, correva. Ormai era vicino alla ragazza, e lei gridò – Raghib, non posso, non posso, più seguirti! Lui l’afferrò per la mano e la trascinò con furia. E mentre scappavano lei sballottava come una pupattola di stracci. E il chador scivolò via, svolazzando leggero nell’inconsistenza di quella luce e, quando ricadde, li avvolse, funesto, come un silenzioso sudario.

Si destò di soprassalto.
– Non posso lasciare che la uccidano. Mi maledirei per sempre.
Si alzò e scivolò nel silenzio di quel che restava della notte.
Andava verso la prigione ripetendosi mentalmente la Sura quarta dell’An-Nisâ’, Le Donne, versetto 15: “Se le vostre donne avranno commesso azioni infami portate contro di loro, quattro testimoni dei vostri. E se essi testimonieranno, confinate quelle donne in una casa finché non sopraggiunga la morte o Allah apra loro una via d’uscita.
Ecco, lui, Raghib, sarebbe stato la via d’uscita che Allah aveva aperto per Farida.
Arrivò alla prigione. Le guardie dormivano profondamente incuranti del loro incarico, tanto nessuno nel villaggio avrebbe osato liberare un’adultera e mettersi contro la Legge.
Nella pratica di una fede appannata dalla passioni umane avevano scordato il senso delle parole del Profeta. Ciò che dicevano e ciò che lasciavano intravedere, sempre: la misericordia e il perdono.
Farida era rannicchiata in un angolo della cella, la testa raccolta tra le ginocchia. Il chiarore della luna che arrivava dalla minuscola feritoia aperta sul cielo la faceva sembrare una figura evanescente, sul punto di dissolversi nella luce piena del giorno.
– Samira, vieni, ti porto via.
Farida si volse verso di lui.
– Non sono Samira.
– Sei Samira, Farida, Fatima, tutte le donne.
-Ti condanneranno a morire con me.
– Domani saremo lontani, ti porto nella mia città.
Ora correvano veloci nelle prime luci dell’alba cavalcando due cavalli berberi, i migliori che Raghib avesse trovato. Dovevano far presto, prima che la porta di Allah richiudesse i suoi cardini.

Daniela Frascati

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Daniela Frascati, toscana di nascita, vive a Roma. È impegnata da anni nelle politiche della differenza di genere e nel sociale, anche come organizzatrice di eventi culturali. Ha ha pubblicato  racconti in diverse antologie, un volume di poesie e i romanzi Nuda vita e La Passeggera (Scrittura&Scritture).

Qui potete leggere il nostro commento a “La passeggera”: http://www.i-libri.com/libri/la-passeggera/

Con Daniela abbiamo dialogato a questo link: http://www.i-libri.com/scrittori/intervista-a-daniela-frascati-autrice-de-la-passeggera/

Il racconto “La porta di Allah” fa parte del volume Uno sputo di cielo,  raccolta di racconti a cura di Carlo Deffenu. Un progetto editoriale in favore dell’orfanotrofio La Crèche di Betlemme, che abbiamo commentato in questo articolo: http://www.i-libri.com/novita/uno-sputo-di-cielo/

 Risultati immagini per uno sputo di cielo

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