Una vita tra paraponziponzipò e a-a-bbronzatissima, tra gambe ad angolo per ballare il twist e capelli che in realtà sono crini di cavallo. Una vita per la canzonetta, quella di Edoardo Vianello. E se la musica serve anche a intrattenere e distrarre, allora la canzonetta è un’arte e lui ne è stato uno dei maestri. Tutto messo nero su bianco nell’autobiografia Nel continente c’ero (calembour che basterebbe a giustificare l’acquisto), scritta a 84 anni per Baldini + Castoldi.
I libri di memorie sono sempre bilanci di vita: il suo qual è?
«Quello di chi ha ottenuto molto più di quel che si aspettava e molto meno di quel che desiderava».
Traduciamo.
«Ho fatto musica senza sperare in nulla, solo per divertirmi e riuscire a rimorchiare. Quindi ho avuto un successo incredibile. Ma al contempo non ho ottenuto un riconoscimento ufficiale del fatto che le mie canzoni contenessero sia cose sofisticate che popolari: se le analizza non erano così banali nella melodia. Ma ho avuto anche varie fortune. Ad esempio avere accanto giganti: come paroliere Carlo Rossi, come arrangiatori, ma il termine è decisamente riduttivo, Luis Bacalov ed Ennio Morricone. A loro devo invenzioni come lo “splash” di Pinne, fucile e occhiali».
Nel diminutivo “canzonette” sente qualcosa di spregiativo?
«Tanti lo usano con questo intento. Per quanto mi riguarda no. Mi etichettano tutti con gli anni Sessanta e con la canzonetta. Ma quel decennio è stato semplicemente irripetibile e Dino Risi mise Guarda come dondolo e Pinne, fucile e occhiali nel Sorpasso per raccontare un’epoca. Un vero orgoglio».
Da dove viene quel suo modo di cantare quasi sincopato?
«Forse inconsciamente da mio padre Alberto, che era stato un bravo poeta futurista: c’erano tanti suoni quasi inarticolati in quel che scriveva. Mi piace pensare che mi abbia trasmesso qualcosa, anche se non abbiamo mai parlato della sua attività letteraria e questa attinenza tra me e lui l’ha scovata Vincenzo Mollica. Comunque sì, le mie canzoni sono futuriste: hanno raggiunto il futuro. Adesso, per esempio, mi ha fatto molto piacere che Myss Keta abbia scovato nel Capello la parola “finimondo” e ci abbia fatto una canzone».
Chi la critica sottolinea spesso la vacuità dei testi, il parlare di sciocchezze o cose assurde.
«Ma la vita è fatta anche di queste cose. E poi ho un mio lato artistico serio, diciamo così, penso a una canzone come O mio Signore, anche se io sono fiero del lato più divertito. Che comunque parla anche di cose importanti. Ad esempio Il capello, che racconta la corruzione».
Prego? Dove starebbe la corruzione nella storia di un capello che in realtà è un crine di cavallo uscito dal paltò?
«Nella dichiarazione del chimico, che è stato evidentemente prezzolato dal traditore».
Questa ci mancava. Ma allora parliamo del razzismo, quello di cui tanti tacciano “I watussi”. Riscriverebbe ancora le parole “Gli altissimi negri”?
«No, ovviamente: mi rendo conto della discriminazione verso le persone alte».
E seriamente?
«E seriamente se guarda le trasmissioni d’epoca su Rai Storia si accorgerà che ai tempi “negro” era una parola di uso comune senza connotazioni dispregiative: la si usava anche per definire Martin Luther King. Quindi io ce la lascio e canto ancora la canzone così: è storia. Sarebbe come levare la scritta “Mussolini Dux” dalla colonna del Foro Italico».
A proposito, lei è uno dei pochi cantanti ad avere dichiarato simpatie di destra, e in tempi non sospetti, alla nascita di An. Contento del governo Meloni?
«Anzitutto mi lasci precisare che non sono mai stato fazioso né aggressivo, mi sono anche tranquillamente esibito alle Feste dell’Unità. Poi certo ho le mie idee, e in questo momento veramente buio per l’Italia credo e spero in Giorgia Meloni: è l’unica che può darci uno scossone».
L’hanno mai confusa con suo cugino Raimondo?
«Non sa quante volte, io con lui e lui con me. In una scenetta di Casa Vianello Raimondo riceve una telefonata in cui lo chiamano Edoardo e lui sbotta: “Non confondetemi mica con quel cantante”. Quanto a me, la più clamorosa fu a una premiazione in Comune a Roma: il sindaco Darida mi diede una targa chiamandomi Raimondo. Non ebbi cuore di smentirlo e risposi: “Chissà quanto sarà contenta Sandra”».
Da Darida a Dalida: lei era a Sanremo nel 1967, l’anno di Tenco e della sua morte che ancora fa discutere.
«Un’esperienza terribile. La mia sensazione è che Luigi fosse fuori di testa per sostanze e alcol e abbia pasticciato con la pistola. La certezza è quel che successe il giorno dopo: io non volevo cantare, e invece fui costretto. Per di più il titolo della mia canzone era Nasce una vita, e non devo aggiungere altro».
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