Il disturbo di un corpo
A M.E.
Ribollo inquieto, testardo, ritrito
in un azzurro pomeriggio lieve
e punitivo, nel masturbare il contrito
pensiero apolide che speranza non beve.
Attendo – placido e morente, spola
di un’estasi macabra e greve –
di scovare, e che sia vergine stola,
nella mia più sacra pieve
non una, ma la parola
penetrante e punitiva, che beve
ed è bevuta: che trapassi questo corpo
tiepido e vibrante folli passioni.
Eccola: disturbo.
Umano non appartiene all’uomo in sé
ma solo all’umanità stessa
che da sempre – perché è –, né
tedia né ama ma, indefessa
intimamente, nutre poiché
viva. Ma solamente se tesa
nella morte si fa disturbo. Canini
latrati paio udire ora; non sono
– turpe raggelo – le ceneri di Pasolini,
ma un corpo non più abitato, afono,
privo di grazia e con confini
abbattuti e urla perse dal tono
bandito. Che tu possa, lagrima
che laceri il mio volto, prostrarti
e bagnare quella terra che china
scrisse le sue ultime parole.
Irriconoscibile, smascherato delle
sue stesse facce morenti
giace irreligioso, con chiazze di pelle
e ricoperto – come sporchi denti –
di terreno che risplende di stelle
che si velano con nuvole spegnenti.
Non è la tua mediatica dipartita
o la tua feroce e terribile assenza
di parole, o la putrida e stizzita
polemica, o la crudezza senza
pudore – spettacolo che non cita
il giudizio – a turbare l’intimo
del mio animo acerbo.
È sì quel corpo sconsacrato come
tempio che fu (intimamente) religioso;
misteri inviolabili nel nome
del sacro. Il sangue non più focoso
né nutriente impregna chiome
di diramanti orrori – vedo il rosso
che è nero indicibile e crudele –;
è spettacolo osceno e fondamentale.
Sarebbe lieta l’avida Ginestra primaverile
nel berti. La vita che fugge, in quanto tale,
è trasaliente e disturbatrice, scintille
di un fuoco che irrompe nel reale,
come forza eversiva che scuote
e abbandona. Io ero lì quella notte
e sono lì, ora. Mi percuote
quest’idea simile ad un impeto di botte
che storte ingravidano le pelli vuote
deturpandole di antichi colori di morte.
Posso sentirlo: ancestrale disturbo
che il mio animo sa muovere e colpire
e abbandonare, attendendo che trafitto
si rialzi e incida davvero nel dire.
È nella sola e nuda parola che curvo
rivedo la luce dei tuoi occhi, del tuo agire
per la vita, per l’idea, per la libertà.
Esigo nient’altro che belle e gentili
parole. Vedo il tuo corpo distrutto
e abbrutito e prego romanticamente che vili
orrori periscano nella bellezza e nel giusto
– che è il solo mondo a cui aneli –.
Sento le suture dilatarsi al centro del busto,
espanse da sentimenti di lotta arsa,
intime, dure – sei tu –, non teneri.
Basta, è la sacralità che ci richiama:
il tuo corpo ora religiosamente di ceneri
ricopro, non con tristi bandiere o languidi lamenti.
La vita si sofferma in questi pomeriggi eterei
e infernali; sento ancora i tuoi sguardi accecanti
nei miei, la tua bocca fusa ai miei terrei
labbri sopiti. Possiedo le tue parole scrostanti;
urlano, mi urlano di ripensare alla Parola
prim’ancora che al parlare. So solo tacere:
taccio e contemplo il tuo sangue, il tuo sangue
– rosso – fuoriuscito solo per coprirti.
Luigi Bianco
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