Poesia

Quel poeta profeticamente illeggibile

Pasolini Pier Paolo

Descrizione: A un giovane che affrontasse per la prima volta questo libro, si potrebbe forse dire: leggi anzitutto "Una disperata vitalità", e se da quel magma non ti senti alla fine stordito ed escluso, se riesci a cogliere il messaggio di angoscia ma anche di "disperata vitalità", appunto, che ne promana, allora potrai affrontare anche il resto, con la pazienza e la tenacia necessaria per accettarlo e capirlo; per rifiutarlo, anche, ma dopo averlo capito e dopo aver capito perché, nell'Italia del boom economico, ci si potesse sentire come un "gatto bruciato vivo", come "un serpe ridotto a poltiglia di sangue" e non solo per disposizione e situazione esclusivamente personale." (Dalla Prefazione di Edoardo Esposito).

Categoria: Poesia

Editore: Garzanti

Collana: Quel poeta profeticamente illeggibile

Anno: 2015

ISBN: 9788811688938

Recensito da Angelo Favaro

Le Vostre recensioni

Pier Paolo Pasolini, quel poeta profeticamente illeggibile

di Angelo Favaro

            Da qualche giorno ormai è stato celebrato il genetliaco del più controverso e contrastato intellettuale, poeta, romanziere, polemista e regista italiano del XX secolo, ho atteso, prima di scriverne, che sbollisse il brulichio di articoli, di interventi e di osannanti peana, quanto di malevoli sfoghi.

           Sono ormai trascorsi 99 anni dalla sua nascita, in un 5 marzo del 1922, a Bologna, quella cittadina che pochi mesi dopo, fra il 27 maggio e il 2 giugno, avrebbe assistito alla presa d’assalto di fascisti incattiviti e violenti; il 2 novembre 1975, invece, il poeta delle Ceneri avrebbe visto la morte all’idroscalo di Ostia, a causa di ancora ignoti assassini.

            La sua vita come la sua morte fanno parte ormai di un immaginario epicamente edificato, in parte dallo stesso Pier Paolo, in parte dalla stampa e da quanti si sono occupati dei suoi scritti e del suo cinema: quando si considera la complessità e la varia articolazione della sua Opera poetica, narrativa, teatrale, saggistica, cinematografica e artistica si rimane interdetti di fronte alla condizione di una spaesante autoaffermazione indistinguibile da un tono profeticamente risolto dalla rivelazione della sempre adveniente apocalissi umana, sociale, culturale.

            Esemplare a tal proposito la raccolta Poesia in forma di rosa: una sorta di autobiografia diaristica polemica e inquieta, dove l’io rimane centrale, sia per quanto attiene alla persecuzione giudiziaria, sia per i viaggi e le prime produzioni cinematografiche, esperienze che fomentano nel poeta la condizione del polemista, irregolare e affetto da un maledettismo decadente, ma anche inquietamente a disagio nel clima del neocapitalismo, che fa avvolgere su se stessa la storia in una nuova preistoria.

            A rileggere, oggi, la Ballata delle madri, il lungo testo poetico che apre la sezione Realtà della raccolta, si viene pervasi da un profondo sbigottimento nel rapportare specularmente i primi anni Sessanta del secolo scorso al nostro presente: la società dei consumi ha modificato irreparabilmente l’essere e l’agire “storico” e “naturale” della madre, trasformando la dedizione, il sacrificio e l’amore materni in una mostruosa e oscena azione pedagogica consumistico-conformista, secondo modelli e forme della società borghese.

Mi domando che madri avete avuto.
Se ora vi vedessero al lavoro
in un mondo a loro sconosciuto,
presi in un giro mai compiuto
d’esperienze così diverse dalle loro,
che sguardo avrebbero negli occhi?
Se fossero lì, mentre voi scrivete
il vostro pezzo, conformisti e barocchi,
o lo passate a redattori rotti
a ogni compromesso, capirebbero chi siete?

Madri vili, con nel viso il timore
antico, quello che come un male
deforma i lineamenti in un biancore
che li annebbia, li allontana dal cuore,
li chiude nel vecchio rifiuto morale.
Madri vili, poverine, preoccupate
che i figli conoscano la viltà
per chiedere un posto, per essere pratici,
per non offendere anime privilegiate,
per difendersi da ogni pietà.

Madri mediocri, che hanno imparato
con umiltà di bambine, di noi,
un unico, nudo significato,
con anime in cui il mondo è dannato
a non dare né dolore né gioia.
Madri mediocri, che non hanno avuto
per voi mai una parola d’amore,
se non d’un amore sordidamente muto
di bestia, e in esso v’hanno cresciuto,
impotenti ai reali richiami del cuore.

Madri servili, abituate da secoli
a chinare senza amore la testa,
a trasmettere al loro feto
l’antico, vergognoso segreto
d’accontentarsi dei resti della festa.
Madri servili, che vi hanno insegnato
come il servo può essere felice
odiando chi è, come lui, legato,
come può essere, tradendo, beato,
e sicuro, facendo ciò che non dice.

Madri feroci, intente a difendere
quel poco che, borghesi, possiedono,
la normalità e lo stipendio,
quasi con rabbia di chi si vendichi
o sia stretto da un assurdo assedio.
Madri feroci, che vi hanno detto:
Sopravvivete! Pensate a voi!
Non provate mai pietà o rispetto
per nessuno, covate nel petto
la vostra integrità di avvoltoi!

Ecco, vili, mediocri, servi,
feroci, le vostre povere madri!
Che non hanno vergogna a sapervi
– nel vostro odio – addirittura superbi,
se non è questa che una valle di lacrime.
E’ così che vi appartiene questo mondo:
fatti fratelli nelle opposte passioni,
o le patrie nemiche, dal rifiuto profondo
a essere diversi: a rispondere
del selvaggio dolore di esser uomini.

            La profezia del poeta oltre a non essere stata ascoltata, nemo propheta in patria, contiene una forza di attrazione e repulsiva al contempo constatazione che induce i lettori alla più fastidiosa aporia: ci riguarda tutti, ma nessuno vorrebbe riconoscervisi.

            Non di meno il teatro di Pasolini dispone ad una presa di coscienza della civiltà occidentale che tramonta inesorabilmente e tremendamente, schiacciata dai propri riti e dai propri miti: come non pensare alla messa in scena di Calderòn per la regia di Federico Tiezzi e Sandro Lombardi, in scena dal 4 al 9 ottobre 2016, al Teatro della Pergola. Dal secentesco Pedro Calderón de la Barca al 1967-1973 pasoliniano: una tragedia in versi che pone in una maledetta camera della tortura i personaggi, Basilio, Sigismondo e Rosaura, incapaci di vivere il proprio tempo, la Spagna franchista nel 1967, attraversano gli ambienti sociali dell’aristocrazia, della media borghesia, del proletariato, in sogno, confondendo ruoli sociali e parentali, manifestando un odio invincibile verso gli adulti e il potere, che riduce ogni essere umano e i suoi desideri alla disperazione. Non c’è spazio per l’amore, per la nostalgia, per la diversità. Utopia e absurdum nel finale il giungere degli operai comunisti come salvatori dal nuovo nazifascismo. Pasolini tentò di spiegare il tuo testo drammatico e di spiegarsi al pubblico di spettatori con una semplice nota:

«In tutti e tre i suoi risvegli, Rosaura si trova in una dimensione occupata interamente dal senso del Potere. Il nostro primo rapporto, nascendo, è dunque un rapporto col Potere, cioè con l’unico mondo possibile che la nascita ci assegna. Il Potere in Calderón si chiama Basilio (Basileus), ed ha connotati cangianti: nella prima parte è Re e Padre (appare nello specchio – con l’Autore!! – come nel quadro di Diego Velásquez Las Meninas), ed è organizzato classicamente: la propria coscienza di sé – fascista – non ha un’incrinatura, un’incertezza. Nella seconda parte – quando Rosaura si risveglia ‘povera’, sottoproletaria in un villaggio di baracche – Basilio diviene un’astrazione quasi celeste (sta nello stanzone di Las Meninas vuoto, come sospeso nel cosmo: e da lì invia i suoi sicari sulla terra); infine, nella terza parte, è il marito piccolo-borghese, benpensante, non fascista ma peggio che fascista».

            Tutto nella scrittura di Pasolini appare illimitato e senza limite, ogni sua polemica conduce allo sfiacamento, ogni sua battaglia non termina se non con sanguinose conseguenze, perché la sua volontà di comprendere e fare luce sulle situazioni è più forte di qualsivoglia ritegno o conformistico distacco: non bisogna lasciare scampo all’impietosa e disgustosa (Salò docet) sopraffazione del potere, alla miseria, alla sofferenza. La condanna del polemista corsaro e luterano rimane senza appello: all’alienazione e alla riduzione a sottospecie bestiali degli uomini e delle donne, che sia operata dal capitalismo o dalla società dei consumi, non consente il silenzio o l’inconsapevolezza. Denunciare sempre e comunque! A costo della reputazione, della serenità, della propria vita! Così ebbe a chiarire Carlo Bo: «Pasolini affonda il bisturi nella polpa della nostra vergogna, senza lasciar trapelare un momento di dubbio, di incertezza: qui la descrizione del male, per essere valida, non ha da essere completa, basta una sapiente allusione.»

            Così come il teatro, oggi, appare irrappresentabile e privo del rispetto dei più elementari codici della messa in scena, e la poesia frutto di un incomprensibile mélange di stili, lemmi, costruzioni sintattiche, egualmente illeggibile la sua narrativa, che sia quella delle prime prove in dialetto falso-romanesco o quella sperimental-filologica di Divina mimesis, o ancora l’incompiuta sinfonia-monstrum di Petrolio. L’ultimo romanzo è un’opera mondo: la morte di Pier Paolo lascia la composizione interrotta in un punto indecifrabile, le vicende editoriali e di riparazione filologica rimangono avvolte nel più misterioso e intangibile riscatto, l’intreccio divaga fra potere politico e economico, le stragi degli anni Settanta, la responsabilità degli intellettuali, la metamorfosi antropologica e culturale. Carlo, il protagonista, si trasforma e contrappone sé a sé, generando nel lettore la difficoltà di risalire alle numerose e vari angolazioni prospettiche, che travalicano dalla filosofia allo sperimentalismo, dalla storia alla cronaca, dalla psicanalisi alla ripugnanza di una tragicommedia inaccettabile, fra visioni liriche e pantomime cinematografiche. In una lettera all’amico Moravia, che in quegli anni stava lavorando a La vita interiore, scriveva, in una lettera mai inviata: «E un romanzo, ma non è scritto come son scritti i romanzi veri: la sua lingua è quella che si adopera per la saggistica, per certi articoli giornalistici, per le recensioni, per le lettere private o anche per la poesia». In una intervista rilasciata durante la composizione dell’opera chiariva: «Ho iniziato un libro che mi impegnerà per anni, forse per il resto della mia vita. Non voglio parlarne: basti sapere che è una specie di summa di tutte le mie esperienze, di tutte le mie memorie».

            Pier Paolo Pasolini è uno scrittore desolante, e non per quanto di lui si favoleggiò in vita o post mortem, nemmeno per i capi d’accusa dei processi che subì, neanche per la sua strafottente contraddizione, no!, è irritante per quel suo continuo desiderio di risultare illeggibile e di sfidare la critica, i lettori, coloro che si occuparono e si continuano a occupare della sua Opera multiforme: mai compiacente, mai accomodante, mai, nemmeno per una svista, moderatamente aperto e conciliante; al contrario la sua scrittura è complessa, dantescamente ambivalente e poliedrica, infernale più che paradisiaca, sempre scandalosa, anche quando non vorrebbe, sempre dirompente e violenta, anche mentre tenta di trattare argomenti sacri o attinenti alla religione, sempre contro-conformista nella lotta alla società dei consumi, al neocapitalismo, all’omologazione. Pier Paolo Pasolini è uno scrittore repellente, perché costringe ognuno a fare i conti con il proprio limite di borghese perbenismo, che si crogiola nei vizi privati, per ammantarsi socialmente delle pubbliche virtù, con la propria confort-zone di indifferenza e accidia, di ignoranza. Obbliga a mettersi a nudo di fronte alla propria coscienza, nella necessità di una continua condizione resistenziale, senza cedimenti, spossante.

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