Letteratura araba

Ho visto Ramallah

Al-Barghuthi Murid

Descrizione: La storia di una tragica assenza e di un coraggioso ritorno. Dopo trent'anni, Murid al-Barghuthi racconta i ricordi della sua giovinezza a Ramallah, poi il giorno in cui ha dovuto abbandonare tutto, senza sapere che non sarebbe tornato. Un reportage sulla diaspora palestinese lontano dai comuni percorsi dell'odio.

Categoria: Letteratura araba

Editore: Ilisso

Collana:

Anno: 2005

ISBN: 9788889188316

Recensito da Lucilla Parisi

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“I nostri morti sono dispersi ovunque. Talvolta non sappiamo dove depositare i loro cadaveri: le capitali del mondo rifiutano di accoglierci da vivi. Se i morti di ghurba, i morti di arma da fuoco, i morti di nostalgia, i morti di semplice morte sono comunque martiri, e se, come dicono le poesie, ogni martire è una rosa, allora possiamo vantarci di aver trasformato il mondo in un giardino”.

 Murid Al-Barghuthi è palestinese e ha conosciuta la ghurba, l’esilio. Come ci racconta nel suo Ho visto Ramallah, l’esilio per chi lo subisce non è mai uno solo. Ne esistono molteplici. E’ anche quello dello straniero costretto a vivere una condizione di perenne estraneità, che “vive i dettagli di un’altra vita che non interessa a chi gli sta attorno”.

Dopo trent’anni di lontananza forzata, nel 1997 il poeta torna in Palestina, per riprendere un discorso interrotto anni prima.

Nel giugno del 1967 Ramallah, il paese dove è cresciuto, e l’intera Cisgiordania, vengono annessi ai Territori Occupati dall’esercito israeliano. Al-Barghuthi, allora in Egitto per frequentare l’università, non può più rientrare in patria e con lui migliaia di palestinesi. Dopo una vita trascorsa tra Il Cairo e Budapest, il poeta palestinese rientra in Palestina: questo dopo la firma nel 1993 della “Dichiarazione dei principi” di Oslo e l’inizio di un processo di riconciliazione con Israele, in realtà mai portato a termine.

Quella che il poeta ritrova è una terra segnata dall’occupazione e dall’esodo, dall’assenza di chi non è mai più rientrato e dalla morte di chi è rimasto Ciò che rimane è un Paese immobile, intrappolato nel proprio passato e arenato in un presente senza prospettive. Il ritorno a Ramallah e la vista dei luoghi della sua infanzia non riescono a riscattarlo e a liberarlo dallo status di esule, una condizione che Murid sente appartenergli ormai definitivamente. Non si cancellano trent’anni di esilio, in cui ci si abitua a non essere di nessun luogo. E’ proprio il “senso” dell’esilio a fargli scrivere “Non vivo in un luogo. Vivo nel tempo, negli elementi che compongono la mia psiche, in una sensibilità”.

Una scrittura, quella di al-Barghuthi, che si fa sempre più amara e intensa nel suo scorrere, ma mai rabbiosa. Non è il politicamente corretto che impedisce al poeta palestinese di pronunciare parole più dure nei confronti di Israele, ma la consapevolezza e la convinzione profonda che la scrittura non debba trasformarsi necessariamente in militanza politica o in atto di resistenza. La scrittura è essa stessa esilio, un esilio “dal normale contratto sociale […] dal consueto, dai modelli, dagli schemi fissi, dalla maniera comune di amare e di odiare. […] Il poeta si sforza di fuggire dal linguaggio più comunemente diffuso, per creare una lingua mai parlata prima”.

Ciò che l’autore riesce a creare è un romanzo del ritorno, fedele agli eventi e alla storia che narra, ma con una vocazione letteraria e decisamente lirica. Come ben scrive nella postfazione al libro la traduttrice Monica Ruocco, il libro di Murid al-Barghuthi “è crudo, analitico e realistico come un reportage e, nello stesso tempo, poetico, coinvolgente e suggestivo come un romanzo”.

Il risultato è un testo da leggere e rileggere, ricco di spunti di riflessione, fortemente nostalgico ma immediato nella sua efficace analisi della realtà. La scrittura di al-Barghuthi ben si presta a descrivere, in un viaggio tutto autobiografico, ricordi, emozioni ed episodi di una vita. Dalla Guerra dei sei giorni all’occupazione israeliana, dalla militanza politica in Egitto al matrimonio con la nota scrittrice egiziana Radwa Ashur; dall’esilio a Budapest, dopo l’espulsione dall’Egitto nel 1977 quando suo figlio Tamim ha solo cinque mesi, al rientro in Palestina; da Deir Ghassana, dove si trova la casa della sua infanzia, a Ramallah, la città dalle diverse culture e le diverse facce.

Il ritorno del poeta in patria, dopo la morte di amici e di familiari fuori e dentro il Paese, è un passaggio obbligato, per se stesso e per un’intera generazione di esuli, di uomini senza terra. E’ anche il passo nella direzione della riconciliazione con il proprio passato, nella speranza che una nuova generazione di esuli, quella del figlio Tamim, possa rientrare un giorno in Palestina.

Il viaggio di al-Barghuthi è l’occasione per ristabilire la verità dei fatti e delle parole, per denunciare la politica del “dopo” e delle vittime assolute.

E’ semplice mistificare la verità con un banale trucco dialettico. […] E’ sufficiente iniziare il discorso con quanto è accaduto “dopo”, per cambiare la storia […] E’ sufficiente iniziare il discorso con quanto è accaduto “dopo”, perché le frecce degli indiani d’America diventino il crimine originale e i fucili degli uomini bianchi, le vittime. E’ sufficiente iniziare il discorso con quanto è accaduto “dopo”, perché la rabbia dei neri contro i bianchi sia una barbarie. […], perché Ghandi diventi il responsabile della strage dei britannici. E’ sufficiente iniziare la storia con quanto è accaduto “dopo”, perché i vietnamiti bruciati vivi siano colpevoli di aver colpito l’umanità con il napalm, perché le canzoni di Victor Jara offendano più dei proiettili di Pinochet, che ne uccise a migliaia nello stadio di Santiago. E’ sufficiente iniziare la storia con quanto è accaduto “dopo”, che mia nonna Umm ‘Ata diventi il carnefice e Ariel Sharon la sua vittima”.

Ho visto Ramallah ha vinto il prestigioso premio Mahfuz per la narrativa nel 1997.

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