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Opere

Mage ou ange, Arthur Rimbaud dall’inferno alla vita

a cura di Angelo Favaro

Mage ou ange, Arthur Rimbaud dall’inferno alla vita

Arthur Rimbaud è un poeta contemporaneo. Assolutamente contemporaneo.

Riproponendo un interrogativo formulato da Denis Saurat, che tentava di esplicitare qualcosa sulla Religion de Victor Hugo, Carlo Bo, in un articolo apparso su «Il Frontespizio» del dicembre 1937, dal titolo Dell’infrenabile notte, sondava fino a che punto il canto appartenga soltanto alla voce, e la poesia al poeta. E proseguiva riconoscendo l’inesauribile verità della domanda, che nessuna esperienza poetica, dal primo Ottocento fino agli anni Trenta, era riuscita a scalfire, né Baudelaire, né Rimbaud, nemmeno la teoria del surrealisti, ma al contrario tutti costoro continuano ad autorizzarla. Ad avviare quell’articolo era stato il destino doloroso di Dino Campana, sul quale il critico si provava ad illuminare i lettori, e non poteva non ritornare, in un’affinità esistenziale, all’esperienza e alla poesia-voce di Arthur Rimbaud, al suo inferno.

Per comprendere l’inferno di Arthur, non quello di Dino, un passo indietro è opportuno, un passo indietro è necessario: è il 15 maggio 1871, il ragazzo ha sedici anni, è cresciuto da solo, in uno sperduto, allora, villaggio, lontano dalla vita culturale e mondana di Parigi, senza padre, e con una madre anaffettiva, bigotta, religiosissima; è un lettore onnivoro, ma su tutto ama la letteratura, in particolare la poesia, ne scrive dall’infanzia, conosce il latino e compone in esametri: decide di scrivere a Paul Demeny, un poeta di circa dieci anni più grande di Arthur, una lettera sinceramente vergata con l’impellenza di affermare una poetica e un’estetica, nutrite di esistenza e di esperienza, quelle certo di un giovane, ma che non teme di sprofondarsi nel proprio abissale e oscuro, misterioso e allucinato io.

Alcuni nuclei concettuali straordinariamente originali si colgono fra le righe di questo scritto, quasi un manifesto di poetica: non c’è impegno del poeta se non alla poesia, alla conoscenza, anche estrema dell’io, che si scopre sempre un altro: «Je est un autre»; la sapienza deriva al poeta dalla veggenza, una sorta di antivedente, capace di anticipare e pro-fetizzare, attraverso i suoi versi il profondo, l’inquietudine, il disordine: profondità, inquietudine, disordine sono anche le sorgenti della poesia, quando dalla regola e dall’assopimento dei sensi, si passa, invece, al risveglio e all’estremo sregolamento degli stessi: così si giunge all’ignoto, che ci abita. Seppellire il passato, per consentire alla poesia di essere nuova, veramente moderna. Quel che più stupisce nella Lettera è l’affermazione di una poesia d’avanguardia.

«Il primo studio dell’uomo che voglia esser poeta è la sua propria conoscenza, intera; egli cerca la sua anima, l’indaga, la tenta, l’impara. Appena la sa, deve coltivarla; la cosa sembra semplice: in ogni cervello si compie uno sviluppo naturale; tanti egoisti si proclamano autori; ce ne sono molti altri che si attribuiscono il loro progresso intellettuale! – Ma si tratta di fare l’anima mostruosa: come i comprachicos, insomma! Immagini un uomo che si pianti verruche sul viso e le coltivi. Io dico che bisogna esser veggente, farsi veggente. Il Poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato disordine di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di pazzia; egli cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non conservarne che la quintessenza. Ineffabile tortura nella quale egli ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale egli diventa il grande infermo, il grande criminale, il grande maledetto, – e il sommo Sapiente! – Egli giunge infatti all’ignoto! Poiché ha coltivato la sua anima, già ricca, più di qualsiasi altro! Egli giunge all’ignoto, e quand’anche, smarrito, finisse col perdere l’intelligenza delle proprie visioni, le avrà pur viste!» (A. Rimbaud, Opere, Feltrinelli, Milano 1964, pp. 141-147)

La Lettera mostra immediatamente l’attitudine di Rimbaud ad una riflessione visionaria, che conduce il lettore allo smarrimento. Che l’alcol, le droghe, il carcere, gli eccessi tanto nel sesso quanto nelle manifestazioni della quotidianità abbiano influito non si può escludere, Arthur è davvero un giovane contemporaneo, ma limitare la sua scrittura alla sregolatezza e all’eccesso sarebbe un errore imperdonabile. Combattere contro il moralismo borghese non vuol affatto dire essere immorali: come Baudelaire, come Verlaine, anche Arthur visse di entusiasmi che ben oltre la morale comune si consumavano in un continuo e appassionato bruciare amori, dolori, menzogne, denaro, fino alla lacerazione anche del proprio intimo, del proprio animo. Non ebbe timore nemmeno di affrontare il carcere, la violenza, la confusione. Non furono certo i libri di alchimia e di occultismo, che pure lo interessavano, a offrire materia per quel prosimetro diaristico e in forma di confessione che è Une saison en enfer. Questa discesa infera e infernale è già in quella Lettera:

«Dunque il poeta è veramente un ladro di fuoco. Ha l’incarico dell’umanità, degli animali addirittura; dovrà far sentire, palpare, ascoltare le sue invenzioni; se ciò che riporta di laggiù, ha forma, egli dà forma; se è informe, egli dà l’informe. Trovare una lingua; – Del resto, dato che ogni parola è idea, verrà il tempo di un linguaggio universale! Bisogna essere un accademico, – più morto di un fossile, – per portare a termine un dizionario, di qualunque lingua sia. Se dei deboli si mettessero a pensare sulla prima lettera dell’alfabeto, rovinerebbero subito nella pazzia! Questa lingua sarà dell’anima per l’anima, riassumerà tutto: profumi, suoni, colori; pensiero che uncina il pensiero e che tira. Il poeta definirebbe la quantità di ignoto che nel suo tempo si desta nell’anima universale: egli darebbe di più – della formula del suo pensiero, della notazione della sua marcia verso il Progresso! Enormità che si fa norma, assorbita da tutti, egli sarebbe veramente un moltiplicatore di progresso!» (A. Rimbaud, Opere, Feltrinelli, Milano 1964, pp. 141-147)

Ecco il ladro di fuoco che assomiglia tanto al Prometeo incatenato di eschilea ascendenza, colui che subisce l’ira degli dei per aver aiutato gli uomini: la metafora è incalzante. Il poeta non porta la civiltà in quanto tale, ma una nuova civiltà, liberando gli uomini dalle catene passatiste e dal falso moralismo. Pierra Gréve definì nel 1939 Arthur l’enfant perdu perpetuando il mito del poeta maledetto e perduto, del poeta che non deve essere letto… oggi possiamo superare questa pruderie, pensare a Rimbaud come ad un poeta eversivo, sperimentale, che con l’espressione formulare “enormità che si fa norma” esorta alla rivelazione completa della poesia, nella consapevolezza che si possa giungere all’Assoluto, non come pensavano i romantici, ma attraverso la totalità del sé nella vita immanente, attraverso il proprio corpo, la propria carne, ad è magia e profezia di una libertà intollerante ad ogni catena, anche quelle della storia.

            Cinque anni dopo quella Lettera, tornato nella casa di famiglia, ventunenne è alle prese con l’ultima stagione poetica della sua vita, e poi non scriverà più versi. Mai più. Prima viaggerà raggiungendo Giava, farà ritorno e rimase a Cipro a lavorare in una miniera, ma attratto dall’Africa dell’est, vi si trasferirà lavorando come contrabbandiere di armi. Il 10 novembre 1891, a causa di un tumore, morirà in Francia, accudito dalla sorella.

Al prezzo di un solo franco, nel 1873, si sarebbe potuta acquistare l’edizione di Une saison en enfer, pubblicata a Bruxelles dall’Alliance Typografique, a pagina 53, l’ultima del prosimetro, leggiamo: avril-aout 1873. Di maggior interesse, per lettori più o meno esperti, è invece l’edizione pubblicata a Parigi da Léon Vanier, Libraire-Éditeur, al19, Quai Saint-Michel, nel1892, un anno dopo la morte di Arthur, perché preceduta dalle Illuminations,  e soprattutto con la préface de la première édition des Illuminations (1886) a cura di Verlaine, il quale concludendo il breve profilo biografico, del 1886, pensando all’amico-amante, con la nostalgia che solo chi ha amato completamente e senza riserve, appassionatamente e fino al sacrificio di sé e della propria esistenza sa provare, afferma: «On l’a dit mort plusieurs fois. Nous ignorons ce détail, mais en serions bien triste. Qu’il le sache au cas où il n’en serait rien. Car nous fûmes son ami et le restons de loin» (p. VII).

Une saison en enfer è un’opera composita, eterogenea per forma, stile, contenuti: facilmente riconoscibili il prologo e il testo conclusivo in forma di Addio, per il resto si compone di un incalzante susseguirsi di testi in versi, polimetri e di differenti strofe (distici, terzine, quartine) e in prosa poetica, dove quel che appare con tutta evidenza è il vertice della modernità e l’annunzio della contemporaneità. Un diario-confessione scaturito da una vita che si sta per bruciare completamente, totalmente: e il poeta sente, comprende, traduce nei suoi versi e nelle sue confidenze l’intimità, che si es-pone e si pro-pone al mondo; l’energia e l’improvvisa, frenetica ispirazione, che quando non è esacerbante diviene comunque urgente, esuberano e si contaminano con le immagini e una musica potente. Una sinfonia. Pagina dopo pagina, nella Saison l’io lirico, che al contempo evoca Arthur, urge dominante e impellente.

Tutto comincia una sera: «Un soir, j’ai assis la Beauté sur mes genoux. — Et je l’ai trouvée amère. — Et je l’ai injuriée. Je me suis armé contre la justice. Je me suis enfui. O sorcières, ô misère, ô haine, c’est à vous que mon trésor a été confié ! Je parvins à faire s’évanouir dans mon esprit toute l’espérance humaine. Sur toute joie pour l’étrangler j’ai fait le bond sourd de la bête féroce.» (p. 100). E, sempre nel prologo, il poeta esprime tutta le pienezza e l’irritazione per l’assurdità della vita, in quanto tale: «Ah! j’en ai trop pris : — Mais, cher Satan, je vous en conjure, une prunelle moins irritée! et en attendant les quelques petites lâchetés en retard, vous qui aimez dans l’écrivain l’absence des facultés descriptives ou instructives,je vous détache ces quelques hideux feuillets de mon carnet de damné.» (p. 101)[1].

La ricorrenza dell’io è quasi esasperante, ossessiva, narcissica, inevitabile. Qual è il fine della vita, di una vita? La risposta giunge dal poeta, in una tremenda apostasia: «J’ai avalé une fameuse gorgée de poison. — Trois fois béni soit le conseil qui m’est arrivé! — Les entrailles me brûlent. La violence du venin tord mes membres, me rend difforme, me terrasse. Je meurs de soif, j’étouffe, je ne puis crier. C’est l’enfer, l’éternelle peine ! Voyez comme le feu se relève ! Je brûle comme il faut. Va, démon!J’avais entrevu la conversion au bien et au bonheur, le salut. Puis-je décrire la vision, l’air de l’enfer ne souffre pas les hymnes ! C’était des millions de créatures charmantes, un suave concert spirituel, la force et la paix, les nobles ambitions, que sais-je ? Les nobles ambitions! Et c’est encore la vie ! — Si la damnation est éternelle! Un homme qui veut se mutilerest bien damné, n’est-ce pas ? Je me crois en enfer, donc j’y suis. C’est l’exécution du catéchisme.» (p. 112)[2]. Il poeta ha bevuto il veleno della vita, le sue viscere si stanno bruciando, è una violenza, quella che ha ingurgitato, che lo annienta e lo rende deforme-difforme, la pena eterna nell’inferno si consuma qui, nell’al di qua. Nonostante abbia intravisto il bene e i suoi effetti, la felicità e la salvezza, nell’inferno tutto questo rimane incomunicabile, scivola nell’indicibile. La vita non può che essere dannazione eterna: anzi se la dannazione dura eternamente, è vita? Sì, perché anche la dannazione, in un ossimoro prezioso, è deliziosa, quando la si è consumata fino in fondo.

Un moderno Ecclesiaste diviene il poeta della stagione infernale-infera: la conclusione non può che trattenerci con un addio, nel quale l’io lirico si dichiara angelo o mago, dopo aver superato ogni morale, alla fine è nuovamente a terra, vinto dalla realtà, con le sue rughe; si è forse ingannato, ha forse ingannato gli altri? Si è nutrito di menzogne, e di ciò si scusa, ma chiede aiuto, chiama in soccorso qualcuno, un amico:

«Moi ! moi qui me suis dit mage ou ange, dispensé de toute morale,je suis rendu au sol, avec un devoir à chercher, et la réalité rugueuse à étreindre ! Paysan ! Suis-je trompé? la charité serait-elle soeur de la mort pour moi? Enfin, je demanderai pardon pour m’être nourri de mensonge. Et allons. Mais pas une main amie ! et où puiser le secours?» (p. 146). [3]

Forse nel bel film di un poeta, Nelo Risi, Una stagione all’inferno (1970), il tormento di Arthur si può cogliere con tutto il suo drammatico enigma. Il regista ricorda che gli era «stato proposto su soggetto di Giovanna Gagliardo.» Aveva chiamato: «Raffaele La Capria e – aggiunge – abbiamo lavorato assieme alla sceneggiatura. […] Rimbaud era un tema che mi stava a cuore. La scommessa fino all’impossibile da parte di un uomo che era stato un genio a 18 anni e che, a un certo punto, butta via la poesia (per la quale tutto sommato io vivo) e si mette a fare il trafficante d’armi» (Risi).

            Anche Arthur, a suo modo, aveva continuato non a vivere con o per la poesia, ma a vivere la poesia, nella poesia. Nell’inferno della poesia.

Angelo Fàvaro

Note

[1] Una sera, ho fatto sedere la Bellezza sulle mie ginocchia. – E l’ho trovata amara. – E l’ho insultata.    Mi sono armato contro la giustizia. Sono fuggito. O streghe, miseria, odio, è a voi che è stato affidato il mio tesoro! Riuscii a far svanire dal mio spirito tutta l’umana speranza. Su ogni gioia, per strangolarla, ho fatto il balzo sordo della bestia feroce. Ho invocato i carnefici per mordere, morendo, il calcio dei loro fucili. Ho chiamato i flagelli per soffocarmi con la sabbia, col sangue. La sventura è stata il mio dio. Mi sono disteso nel fango. Mi sono asciugato all’aria del delitto. E ho giocato brutti tiri alla follia. E la primavera mi ha portato il riso orrendo dell’idiota.    Ora, essendomi trovato di recente sul punto di fare l’ultimo crac! Ho pensato di cercare la chiave dell’antico festino in cui forse potrei ritrovare l’appetito. Questa chiave è la carità. – Questa ispirazione dimostra che ho sognato!    «Tu resterai iena, ecc.», ribatte il demonio che mi ha incoronato di così amabili papaveri. «Giungi alla morte con tutti i tuoi appetiti, e il tuo egoismo e tutti i peccati capitali.»    Ah! ne ho avuto fin troppo: – Ma, caro Satana, te ne supplico, una pupilla meno irritata! e in attesa di qualche piccola vigliaccheria ritardataria, voi che amate nello scrittore l’assenza di facoltà descrittive o istruttive, strappo questi pochi turpi foglietti dal mio taccuino di dannato.

[2] Ho inghiottito una formidabile sorsata di veleno. – Sia tre volte benedetto il consiglio che mi è giunto! – Le viscere mi bruciano. La violenza del veleno mi torce le membra, mi rende deforme, mi schianta. Muoio di sete, soffoco, non posso gridare. E’ l’inferno, la pena eterna! Guardate come il fuoco si ravviva! Brucio come si deve. Va’, demonio! Avevo intravisto la conversione al bene e alla felicità, la salvezza. Come descrivere la visione, l’aria dell’inferno non tollera inni! Erano milioni di creature affascinanti, un soave concerto spirituale, la forza e la pace, le nobili ambizioni, che so? Le nobili ambizioni!  Ed è ancora la vita! – Se la dannazione è eterna! Un uomo che si vuole mutilare è dannato sul serio, ve- ro? Mi credo all’inferno, dunque ci sto. È l’adempimento del catechismo.

[3]    Io! Io che mi sono detto mago o angelo, dispensato da ogni morale, vengo riportato al suolo, con un dovere da cercare, e la rugosa realtà da stringere. Bifolco! Sono ingannato? la carità sarebbe la sorella della morte, per me? Insomma, chiederò perdono per essermi nutrito di vergogna. E andiamo. Ma neanche una mano amica! e dove trovare aiuto?

 

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Iniziamo la pubblicazione dell’opera con il primo capitolo, già introdotto con la nota 3 al commento del prof. Favaro:

Un tempo, se ben ricordo

“Jadis, si je me souviens bien…”

Un tempo, se ben ricordo, la mia vita era un festino, in cui si aprivano tutti i cuori, tutti i vini scorrevano.

Una sera, ho fatto sedere la Bellezza sulle mie ginocchia. – E l’ho trovata amara. – E l’ho insultata.

Mi sono armato contro la giustizia.

Sono fuggito. O streghe, miseria, odio, è a voi che è stato affidato il mio tesoro!

Riuscii a far svanire dal mio spirito tutta l’umana speranza. Su ogni gioia, per strangolarla, ho fatto il balzo sordo della bestia feroce.

Ho invocato i carnefici per mordere, morendo, il calcio dei loro fucili. Ho chiamato i flagelli per soffocarmi con la sabbia, col sangue. La sventura è stata il mio dio. Mi sono disteso nel fango. Mi sono asciugato all’aria del delitto. E ho giocato brutti tiri alla follia.

E la primavera mi ha portato il riso orrendo dell’idiota.

Ora, essendomi trovato di recente sul punto di fare l’ultimo crac! Ho pensato di cercare la chiave dell’antico festino in cui forse potrei ritrovare l’appetito.

Questa chiave è la carità. – Questa ispirazione dimostra che ho sognato!

«Tu resterai iena, ecc.», ribatte il demonio che mi ha incoronato di così amabili papaveri. «Giungi alla morte con tutti i tuoi appetiti, e il tuo egoismo e tutti i peccati capitali.»

Ah! ne ho avuto fin troppo: – Ma, caro Satana, te ne supplico, una pupilla meno irritata! e in attesa di qualche piccola vigliaccheria ritardataria, voi che amate nello scrittore l’assenza di facoltà descrittive o istruttive, strappo questi pochi turpi foglietti dal mio taccuino di dannato.

2 – continua

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