Concludiamo “Le città e gli scambi” con un’altra riflessione su Eufemia.
«Ogni cosa ne nasconde un’altra», così Marco Polo spiega al suo Kan.
Che rapporto sussiste fra le cose, il loro essere materialmente, i nomi che diamo loro, la funzione molteplice che assumono nell’uso differente? Comprendere? Afferrare qualcosa in questa vita divagante?
Riconoscere è sempre un conoscere perché non si apprende mai nulla per la prima volta.
Eufemia è una città di mercanzie e di mercanti: occorrono oggetti da scambiare e uomini e donne che siano in grado di effettuare lo scambio: si compra e si vende, ma non è solo per questo che si giunge in città.
Le parole e le cose. Ognuno ha una sua storia, che è la propria, ma anche tutte le storie, reali, vissute, immaginarie, desiderate, e ognuno è la propria storia, ma anche tutte le storie degli altri. Ci si trasforma, si muta, si diviene la storia dell’altro. Annullando tempo e spazio, Eufemia è una possibilità di memoria che si innesta in altra memoria.
Marco Polo mostra gli oggetti e ogni oggetto è insieme una storia, sempre un’altra storia per sé e per il Kan, ma è anche l’espressione muta e perfettamente evidente di una molteplicità di funzioni.
Cosa accade quando le parole prendono il posto delle cose? Quando una lingua si condivide? Si comunica. Si mette in comune. Si diviene umani. «Eufemia, la città in cui si scambia la memoria a ogni solstizio e a ogni equinozio.»
Angelo Favaro
La foto è di Francesca Panzacchi
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Le città e gli occhi
IV
Le labbra strette sul cannello d’ambra della pipa, la barba schiacciata contro la gorgera d’ametiste, gli alluci inarcati nervosamente nelle pantofole di seta, Kublai Kan ascoltava i resoconti di Marco Polo senza sollevare le ciglia. Erano le sere in cui un vapore ipocondriaco gravava sul suo cuore.
– Le tue città non esistono. Forse non sono mai esistite. Per certo non esisteranno più. Perché ti trastulli con favole consolanti? So bene che il mio impero marcisce come un cadavere nella palude, il cui contagio appesta tanto i corvi che lo beccano quanto i bambù che crescono concimati dal suo liquame. Perché non mi parli di questo? Perché menti all’imperatore dei tartari, straniero?
Polo sapeva assecondare l’umore nero del sovrano. – Sì, l’impero è malato e, quel che è peggio, cerca d’assuefarsi alle sue piaghe. Il fine delle mie esplorazioni è questo: scrutando le tracce di felicità che ancora s’intravvedono, ne misuro la penuria. Se vuoi sapere quanto buio hai intorno, devi aguzzare lo sguardo sulle fioche luci lontane.
Alle volte il Kan era invece visitato da soprassalti d’euforia. Si sollevava sui cuscini, misurava a lunghi passi i tappeti stesi sotto i suoi piedi sulle aiole, s’affacciava alle balaustre delle terrazze per dominare con occhio allucinato la distesa dei giardini della reggia rischiarati dalle lanterne appese ai cedri.
– Eppure io so, – diceva, – che il mio impero è fatto della materia dei cristalli, e aggrega le sue molecole secondo un disegno perfetto. In mezzo al ribollire degli elementi prende forma un diamante splendido e durissimo, un’immensa montagna sfaccettata e trasparente. Perché le tue impressioni di viaggio si fermano alle delusive apparenze e non colgono questo processo inarrestabile? Perché indugi in malinconie inessenziali? Perché nascondi all’imperatore la grandezza del suo destino?
E Marco: – Mentre al tuo cenno, sire, la città una e ultima innalza le sue mura senza macchia, io raccolgo le ceneri delle altre città possibili che scompaiono per farle posto e non potranno più essere ricostruite né ricordate. Solo se conoscerai il residuo d’infelicità che nessuna pietra preziosa arriverà a risarcire, potrai computare l’esatto numero di carati cui il diamante finale deve tendere, e non sballerai i calcoli del tuo progetto dall’inizio.
…
- D’ora in avanti sarò io a descrivere le città, – aveva detto il Kan. – Tu nei tuoi viaggi verificherai se esistono.
Ma le città visitate da Marco Polo erano sempre diverse da quelle pensate dall’imperatore.
– Eppure io ho costruito nella mia mente un modello di città da cui dedurre tutte le città possibili, – disse Kublai. – Esso racchiude tutto quello che risponde alla norma. Siccome le città che esistono s’allontanano in vario grado dalla norma, mi basta prevedere le eccezioni alla norma e calcolarne le combinazioni più probabili.
– Anch’io ho pensato un modello di città da cui deduco tutte le altre, – rispose Marco. – È una città fatta solo d’eccezioni, preclusioni, contraddizioni, incongruenze, controsensi. Se una città così è quanto c’è di più improbabile, diminuendo il numero degli elementi abnormi si accrescono le probabilità che la città ci sia veramente. Dunque basta che io sottragga eccezioni al mio modello, e in qualsiasi ordine proceda arriverò a trovarmi davanti una delle città che, pur sempre in via d’eccezione, esistono. Ma non possono spingere la mia operazione oltre un certo limite: otterrei delle città troppo verosimili per essere vere.
LE CITTA’ E GLI OCCHI
1. Valdrada
2. Zemrude
3. Bauci
4. Fillide
5. Moriana
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